Atteso da tempo e da poco presente su Netflix, The Witcher si appresta a divenire la serie tv fantasy più divisiva di sempre. Basata sui romanzi dell’autore polacco Andrzej Sapkowski, che ha conosciuto una diffusione più estesa e una celebrità più consistente con l’uscita della saga videoludica omonima – seppur solo ispirata alla produzione letteraria e tangenziale rispetto all’evoluzione della storia narrata nei libri (si tratta di una sorta di spin-off originato dal quinto volume La Signora del Lago) – la serie riprende piuttosto fedelmente le gesta di Geralt di Rivia, lo strigo deputato – per dinastia sociale e vocazione morale, ma anche semplicemente per tirare a campare – a eliminare le mostruosità che infestano e minacciano il già fragile regno di cui umani, popoli antichi ed entità magiche si spartiscono i territori.

Il mondo di Geralt è un luogo oscuro, torvo, dal sapore medievale, che non regala vita facile a nessuno, ma è anche un posto in cui la magia è capace di donare varietà e originalità a cose ed esseri viventi, offrendo fioriture di beltà anche lì dove non si penserebbe di trovarle. La serie tv – diversamente dai videogiochi – prevede la collaborazione e supervisione dell’autore in maniera che nulla sia lasciato al caso e che la naturale mancanza iniziale di informazioni e (quindi) chiarezza, relative a un universo piuttosto ampio e codificato, possano comportare lacune importanti o facili incomprensioni.

Il risultato è una macchinosa, ma piuttosto curata e abbastanza coesa, narrazione di eventi, capace di portare alla luce in maniera vibrante e sempre più coinvolgente ruoli e intenzioni, concentrandosi nella profilazione dei personaggi principali – con i loro background e i loro obiettivi – e nei legami – stabiliti non a prescindere, o dati per assodati e successivamente spiegati, ma costruiti attraverso un’abile circonvoluzione di eventi distanziati nello spazio e nel tempo che, solo per il volere del destino, sembrano ineluttabilmente connessi.

Certamente The Witcher non si propone come uno show immediato e/o disimpegnato – nonostante la natura tematica del prodotto, almeno su schermo, abbia suggerito per anni agli spettatori una realtà diversa, rispetto alla quale Game of Thrones ha rappresentato una prima e importante svolta – ma è diversamente uno spettacolo composito, evidentemente pensato per raccontare molto e durare a lungo (o comunque più a lungo di una stagione). Suggerisce e non rivela mai troppo, semina e rimanda la raccolta. Persino quello che, sulle prime, sembra rappresentare il classico e trito avvio in trama verticale, utile a presentare più o meno staticamente la storia e i suoi personaggi, si rivela presto una formula tutt’altro che lineare – né solo verticale, né tantomeno solo orizzontale – atta a offrire un intreccio di tipo deduttivo.

La ragione sta nella scelta di campo di The Witcher che se dichiaratamente resta un fantasy – almeno negli aspetti puramente estetici della narrazione – è soprattutto un noir che guarda a Raymond Chandler più che a George R. R. Martin. In quanto noir (medievale) grosso spazio viene concesso alla costruzione ambientale e sociale, che fanno da sfondo alle pulsioni e azioni/indagini dei personaggi, e anche se il ruolo investigativo sembra assegnato essenzialmente a Geralt, è chiaramente l’articolazione di più prospettive a far luce sullo spaccato storico che prende in esame e sul mistero che si cela nelle pieghe del tempo.

In otto episodi, infatti, la serie organizza gli eventi attraverso le vite (e i relativi punti di vista) di tre personaggi: Geralt (Henry Cavill), Yennefer (Anya Chalotra) e Ciri (Freya Allan). Le tre timeline, tuttavia, non sono equamente ripartite, ma si differenziano sia per la quantità del lasso temporale ricoperto (circa ottant’anni per Yennefer, più di trent’anni per Geralt e solo due settimane per Ciri), sia per la qualità dell’intreccio (ellissi più ampie per Yennefer e Geralt, che si definiscono “epicamente” attraverso i momenti salienti della diegesi – le gesta – e una cronologia più scandita e stringente per Ciri, che invece si esprime attraverso una partecipe contingenza). Se è vero che l’articolazione delle tre timeline, che viaggia continuamente avanti e indietro nel tempo, rischia talvolta di disorientare lo spettatore, è anche vero che lo sforzo per creare una certa aspettativa sulle storie e sulla Storia appare apprezzabile. Insomma, non siamo di fronte allo show dell’anno, ma dato il materiale di partenza e le complicate premesse produttive, il risultato vale senz’altro un soldo allo streamer.



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