Kenneth Branagh rilegge le sue origini in una semi-autobiografia che mescola realismo e nostalgia per raccontare cosa ha significato e che connotati aveva un’infanzia a Belfast all’inizio del cosiddetto Conflitto nordirlandese, le cui violenze hanno lacerato l’Irlanda e tutto il Regno Unito per un trentennio tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Novanta.

Branagh, nato a Belfast a dicembre del ’60 e “migrato” in Inghilterra a nove anni, guarda al passato in una dichiarazione d’amore alla sua città nascosta nel mélange di dramma sociale e spaccato di vita familiare.

Il suo alter ego è Buddy (l’esordiente Jude Hill), straordinariamente somigliante all’idea che possiamo avere di un Branagh bambino: i capelli biondi, gli occhi chiari, le lentiggini, i lineamenti morbidi ce lo ricordano a ogni inquadratura. È protestante ma la sua famiglia non ha niente contro i cattolici, vittime di un’ostilità sempre più feroce. Anzi. Oltre agli immaginari combattimenti contro i draghi e al cinema – of course – una delle sue passioni infantili è cattolica: la biondissima compagna di classe che lui ammira come una Venere bambina mentre le spazzolano i capelli alla finestra e corteggia a suon di bei voti in matematica per avanzare di banco e poterla guardare negli occhi.

Un fotogramma dal film Belfast di Kenneth Branagh

Belli come due divi e forse poco somiglianti a due genitori della middle class nordirlandese la madre (una bravissima Caitríona Balfe) e il padre (Jamie Dornan) spesso in viaggio per lavoro in Inghilterra. È lì che la famiglia inizia a progettare di trasferirsi per sottrarre i figli all’escalation di violenza che sembra stringere Belfast in una morsa. Ma cosa li aspetta al di là del Mare d’Irlanda? Un Eldorado fatto di nuove possibilità, o la discriminazione degli immigrati?

La patina di malinconia e la tenerezza che consola sono sciolte su Belfast con sapiente amore per la materia. Kennenth Branagh è uno sceneggiatore di consumata esperienza, e sa ritrarre senza sfocature il conflitto interiore che lacera non solo il giovane sé, ma l’intero nucleo familiare: preoccupazioni finanziarie e politiche, oltre al dubbio atroce su una partenza che lascerebbe indietro gli amati nonni (Judi Dench e Ciaràn Hinds, impeccabili) proprio nel momento in cui la salute del nonno sembra vacillare.

Il delicato, lucido bianco e nero della fotografia di Haris Zambarloukos diventa così sia un ingrediente dell’operazione amarcord, sia un’espediente narrativo attraverso cui Belfast acuisce la durezza della ricostruzione storica: l’innocenza della fanciullezza deve scontrarsi con la brutalità dei disordini. E in questo, Branagh fa centro. I toni del film restano piacevolmente sospesi in un gusto d’antan che non è mai polveroso, che guarda al passato usando una prospettiva nuova. L’amore del registra e sceneggiatore per la sua materia è visibile in ogni sequenza, e i personaggi dei genitori sono maneggiati con cura estrema, stretti nelle loro preoccupazioni e contraddizioni ma mai in difetto, nemmeno nelle loro rigidità: c’è un rispetto filiale quasi smaccato nel continuo, silenzioso riaffermare che anche gli errori di Pa e Ma sono imputabili a un tessuto sociale ingiusto e crudele.

Ma è un peccato veniale che a Belfast si perdona volentieri.

belfast

Quello che al film manca è invece una struttura più solida. L’ottima sceneggiatura costruisce il film su un materiale troppo scarno, in cui gli eventi si susseguono in modo ciclico senza un intreccio che faccia progredire il plot. La spirale di incertezza, crudezza, dubbio, amore si ripete troppo uguale a se stessa per novantotto minuti. E il cosiddetto spannung, il momento di massima intensità che di norma precede il colpo di scena, coincide con la fine del film: Buddy e la sua famiglia che gettano il cuore oltre l’ostacolo prendendo una decisione che cambierà le loro vite. In meglio, si spera.

Così il film non fa che costruire le motivazioni che portano a un epilogo forse troppo atteso, ma che non mostra abbastanza. Belfast avrebbe probabilmente tratto giovamento da una struttura più snella nella sua prima parte, e da maggior coraggio nel far intuire qualcosa di più sul futuro dei suoi protagonisti. Pur sacrificando le enigmatiche simbologie di una sequenza conclusiva quasi onirica.

Belfast si è aggiudicato il Golden Globe per la sceneggiatura originale, ha vinto ai BAFTA 2022 come miglior film britannico, e conta sette nomination all’Oscar: incluse quelle per il film, la regia, la sceneggiatura originale e per Judi Dench e Ciaràn Hinds come migliori attori non protagonisti.



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