Capita spesso di pensare che deve esserci un altro universo dove la nostra vita è andata in un modo diverso. Dove non abbiamo perso quel tram, detto quella frase o rovinato quel momento. Un’altra dimensione in cui c’è un’altra versione di noi stessi che ha capito come si fa e non è uscita sconfitta nella partita della vita. Che ha saputo tenere insieme i pezzi, oppure che non si è abbattuto ed è riuscito a farsene una ragione per ripartire. Un luogo diverso, ma uguale, dove le cose sono andate bene.
E se non ci fosse? Se invece noi fossimo sempre noi, col nostro bagaglio di caratteristiche che ci rende sempre simili a noi stessi. Non identici. Le reazioni alle situazioni specifiche magari cambiano, ma la propensione a commettere certi sbagli, a lasciare che certi difetti diventino dominanti rimane intatta e si replica immutata in ciascuna versione di noi stessi. Un prospettiva terrificante, per un uomo medio come me. Potenzialmente catastrofica invece se disvelata di colpo di fronte agli occhi uomo molto meno mediocre, ma altrettanto se non più problematico come Grant McKay: scienziato, anarchico, scienziato anarchico, marito infedele, figlio trascurato, padre assente, collega altezzoso, ricercatore brillante, ribelle, genio, fallito – nonché protagonista di Black Science.
Certo non era questo ci in cui si aspettava di imbatersi Grant McKay, ovvio. Il fallimento, nella sua visione delle cose, non era contemplato. Non quando di mezzo ci sono le sue invenzioni. Il Pilastro avrebbe dovuto funzionare alla perfezione, aprendo porte verso le infinite dimensioni alternative che popolano l’Omniverso, e una nuova epoca di pace sarebbe calata su questo mondo grazie alle rivoluzionarie scoperte che il suo gruppo avrebbe portato con sé dagli altri mondi. Praticamente una passeggiata, a cui invitare persino i propri figli pre-adolescenti, nel maldestro tentativo di recuperare in un colpo solo le notti passate in laboratorio.
Che non tutto invece sia andato come previsto lo si capisce subito in Black Science, la nuova serie sci-fi di Rick Remender, già dalla prima tavola. Grant è in fuga, inseguito da una razza di anfibi antropomorfi e violenti in un mondo ostile e cupo. La rincorsa verso il nuovo salto del Pilatro verso una nuova dimensione – casa? – è un martellante incedere di vignette che alzano, tavola dopo tavola, il livello della tensione mantenendo i battiti cardiaci a una frequenza insostenibile per più di una manciata di minuti. A Remender bastano le prime 30 pagine della sua storia per imporre un ritmo e un’atmosfera destinate a non calare di una virgola, senza – quasi – mai tirare il fiato in tutti e sette i volumi finora pubblicati da Bao.
Lì c’è già tutto: la tensione palpabile e crescente che genera un senso di incombenza; un immaginario pulp debitrice di quello sconfinato campo di possibilità esplorato negli anni ’50 e ’60, quando la narrativa fantastica e la ricerca in laboratorio ancora non si inseguivano nell’attuale girotondo; la preponderanza dell’azione sull’approfondimento psicologico, non trascurato, ma centellinato nei sette volumi, costruito sui fallimenti e su un incrollabile nichilismo; e i colpi di scena, radicali cambi di prospettiva pesanti come mattonate che con cadenza imprevedibile catapultano la serie verso altre imponderabili direzione, come una guerra mondiale combattuta in trincea tra tedeschi e nativi americani robotizzati.
Quello che manca è l’approfondimento psicologico dei personaggi, nelle prime pagine tagliati con l’accetta e presentati come rappresentazioni stereotipate dell’archetipo che incarnano: i ragazzini in difficoltà, l’eroe ribelle, il fido assistente, l’avido corporativista. Arriverà poi, nel corso dei volumi, nei rari momenti di quiete che intervallano le lunghe e spettacolari sequenze di azione di cui la serie poggia. Non stupisce: Black Science è una serie pulp, erede spirituale del Fear Agent di Remender, un’omaggio a un certo tipo di fantascienza nonché una celebrazione dell’avventura che pone pochi limiti alla fantasia- e i richiami a Frank Frazetta nelle cover non sono certo causali.
Quando però Remender scava nell’animo dei suoi personaggi, quello che ne emerge sono per lo più azioni turpi. La morale è tranciante: gli egoisti sopravvivano, chi pensa agli altri invece è destinato presto o tardi a pagare caro questo slancio. Persino il concetto di redenzione è messo in discussione. Il gruppo di dimensionauti capeggiato dal Grant del nostro universo non è il solo a muoversi attraverso “la cipolla”, ovvero i diversi strati di realtà sovrapposti. Avanzando nelle pagine la complessità dell’intreccio aumenta all’apparire di nuove versioni di Grant, di Rebecca, collega e amante di Grant, di Nadir, finanziatore del progetto e rivale di Grant, e persino di Sara, moglie di Grant e madre di Pia e Nathan, tutti votati unicamente alla propria salvezza e alla realizzazione dei propri scopi, incuranti delle vite o delle intere dimensioni sbriciolate allo scopo.
Mentre l’omniverso collassa, le indoli si radicalizzano e le necessità personali diventano più impellenti. Non è sbagliato catalogare buona parte dei personaggi positivi di Black Science come anti-eroi, benché capaci in alcuni momenti di azioni eroiche, o addirittura definirli odiosi forse persino più del Rick Grimes di The Walking Dead, anche perchè questa ammissione verso sé stessi non fa che rafforzare il valore dell’opera nel suo complesso. Non è semplice sviluppare un legame empatico verso Grant, sopratutto come conseguenza della scelta di Remender di mostrarci l’origine delle sue insicurezze solo nella seconda metà del racconto nel suo complesso, eppure risulta altrettanto complicato pensare di abbandonare un volume a metà, prima di essere giunti all’immancabile cliffhanger.
Perché Black Science parte col piede premuto fino in fondo alla corsa dell’acceleratore senza alcuna intenzione di alzarlo prima dell’epilogo, e pur se impostata come una serie di fantascienza di stampo classico riesce a risultare parecchio di rottura. O forse proprio per questo: mentre realtà e sci-fi si inseguono, un po’ per l’abilità dei grandi Autori del genere nell’anticipare il futuro, un po’ perchè chi fa scienza oggi ha letto quelle storie e inconsciamente conduce il proprio lavoro in quella direzione, Black Science si tuffa senza esitazione in un turbine vorticoso di situazioni partorite da quella che sembra una riserva di immaginazione senza fine. Si impara presto ad attendersi l’inattendibile e a non dare mai nulla per scontato, nemmeno la permanenza in vita di personaggi all’apparenza cardinali.
Prima di dover fronteggiare un paffuto mostrone dal tenero aspetto, afflitto però da quella che appare una strana forma di Tourette, la compagnia di Grant si è trovata faccia a faccia con spietati anfibi che cavalcano rane giganti, guerre disumane, variazioni del nostro far west, dimensioni supereroistiche o mitologiche e persino piani metafisici dell’esistenza. Una carica rivoluzionaria che si appella al passato e all’anarchia, non solo dei suoi personaggi, ma anche della struttura narrativa che si muove a strappi senza badare alla confusione generata da personaggi che spariscono e riappaiono, a volte nei panni di un doppione dimensionale.
Pur nel ribollire del caos, però, Remender riesce a mantenere tesi dei fili narrativi che attraversano i volumi, trame orizzontali costruite su piccoli indizi o apparizioni come nella tradizione del miglior Chris Claremont sugli X-Men degli anni ’90 che esplodono improvvise. Queste evoluzioni si estendono anche alla crescita dei personaggi, benché tale sorte si riservata solo ai membri della famiglia McKay, in particolar modo a Pia e Nathan, i piccoli di “casa”, protagonisti di due distinti archi narrativi.
Non è una lettura della società quella che vuole mettere in scena Remender, o meglio, anche se è possibile intendere Black Science come tale, ogni possibile lettura passa attraverso il filtro della famiglia visto come un luogo da cui originano i peccati che tendono a ripetersi e in cui i legami diventano prigionia, nel cui nome si può commettere qualunque atrocità, ma anche la sola e unica spinta verso il riscatto.
Nulla di tutto quanto scritto qui sopra avrebbe un senso però senza le matite di Matteo Scalera e i colori di Dean White prima e Moreno Dinisio poi. Ancora una volta in Black Science tradizione e modernità si incontrano. Il tratto di Scalera è quello del fumetto mainstream contemporaneo in cui la dinamica ipercinetica delle scene d’azione si muove sugli spigoli duri delle sue figure. Non c’era probabilmente un autore migliore per sorreggere la velocità delle sceneggiature di Remender, trasformando ogni inseguimento ed ogni battaglia in una serie di vignette al cardiopalma. Anche i suoi limiti, la realizzazione di volti e figure un po’ troppo simili tra loro soprattutto nei primi volumi, sembra sposarsi con la volontà dell’opera di privare di riferimenti stabili il lettore, costringendolo a seguire l’andamento dei capitoli con l’attenzione ben alta, tornando di sovente sui propri passi per riconnettere gli intrecci.
Il modernismo di Scalera però affonda nella colorazione retrò e pittorica impostata da White e proseguita da Dinisio, in un connubio azzardato ed unico. Le tavole traboccano di viola e arancioni intensi, blu profondi squarciati da lampi di rosso, rimandi ancora una volta a quelle atmosfere rese immortali dai romanzi pulp, fantasy e di fantascienza degli anni ’50 con le loro cover. Se il worldbuilding di Black Science rimane impresso nella mente è senza dubbio merito della capacità di Scalera di tradurre per immagini la fantasia di Remender, ma il risultato non sarebbe così memorabile senza i cieli cremisi o i contrasti sul nero imposti da una colorazione di altissimo livello, che rappresenta un enorme valore aggiunto.
All’alba dell’ottavo e ultimo volume, in uscita in questi giorni in USA e previsto per l’inizio del 2019 in Italia, la serie sfreccia verso una conclusione epica e difficilmente prevedibile, vista la conclusione potenzialmente apocalittica del settimo e penultimo volume. Se c’è una critica che si può muovere alla carriera di Remender finora è quella di non aver mai sfornato finali davvero all’altezza dei suoi intrecci: la conclusione di Black Science rappresenta dunque un’ottima occasione di redenzione non solo per Grant McKay, ma anche per il suo autore.
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