Se siete fan o vi siete casualmente imbattuti nelle opere di Mike Flanagan, non potrete non notare le diverse corrispondenze – o le numerose autocitazioni – che compaiono all’interno di Hill House (The Haunting of Hill House, 2018), la nuova serie tv di genere horror targata Netflix. Naturalmente questo vale sia per tutto ciò che di buono si trova in questa interessante operazione di adattamento – la serie è una trasposizione del romanzo L’incubo di Hill House (Shirley Jackson, 1959) – e scrittura ex novo, sia per quello che riguarda le “irregolarità” e le ridondanze che, da sempre, caratterizzano il cinema di questo giovane autore. Hill House, perciò, pur essendo un prodotto estremamente affascinante e, per molti versi, coinvolgente, finisce per calcare la mano proprio lì dove il cinema di genere agisce meglio in punta di piedi, lasciando allo spettatore il piacere di cogliere le metafore trascinato dall’incombente paura/eccitazione/dolore/euforia del momento.

Dire di più, ricamare sulla natura allegorica del visibile (specialmente nelle produzioni di genere) significa svilirne il ruolo e la funzione per amor di una chiarezza e compostezza narrative che, spesso e volentieri, non sono necessarie. Mike Flanagan si pone nei confronti della regia come un novello Jean Epstein che, con La Caduta della Casa Usher (1928) – che nello sviluppo della serie sembra avere più spazio dello stesso L’incubo di Hill House –, aveva realizzato un’inquietante assemblage di temi e suggestioni unendo al suo peculiare stile fotografico le invenzioni narrative di Edgar Allan Poe e le intuizioni surrealiste di Luis Buñuel.

Proprio come Epstein, Flanagan prova a raccontare, attraverso le atmosfere e le impressioni e servendosi di un interessante ed efficace uso del flashback che sfrutta i raccordi climatici (fotografici) più che quelli immediatamente narrativi (spesso fugando la logica), una tragedia familiare dove il punto di vista (reale e soprannaturale) e la natura delle responsabilità giocano un ruolo curiosamente destrutturante più che noiosamente edificante. Purtroppo però la cosa non gli riesce fino in fondo e, a partire dal sesto episodio – da molti considerato il migliore, ma a mio avviso quello, per scelta registica, più limitato e meno avvincente – a cercare una quadra nel modo peggiore, ossia sciogliendo i nodi insistendo sulle ripetizioni e spiegando attraverso i dialoghi simboli e metafore, fino all’estenuante e ingiustificato melenso finale.

Se è vero che Flanagan ci aveva già abituati a simili cambi di rotta ed epiloghi esplicativi e ridondanti sia con Somnia (2016), sia con Il Gioco di Gerald (2017), si può dire che all’interno di un prodotto seriale come Hill House, peraltro realizzato con cura e intelligenza, questi finiscano per risultare ancor più fastidiosi e stonati che in un lungometraggio, proprio perché esacerbati da una modalità narrativa (la serie) già di per sé obbligata a raccontare più che a evocare, puntualizzare più che universalizzare. Esperimento compositivo questo, ad oggi e per quanto io ricordi, riuscito solo David Lynch con Twin Peaks, quando già nei ’90 sopperiva alle difficoltà narrativo-seriali del racconto di genere con un formidabile e schizofrenico impiego della soap opera.

Fatte le dovute pulci diciamo anche che, nel suo insieme, Hill House è un prodotto che tiene botta, soprattutto perché riesce a risultare estremamente convincente sul piano dell’incanto e dell’orrore che, nella ripartizione episodica e nella misura divulgativa della serie tv, il più delle volte finiscono per non prendere corpo o risultare marginali. L’accostamento della ghost story vecchio stile all’immaginario attuale allestito da Mike Flanagan risulta vincente perché mentre mantiene la raffinatezza del racconto letterario riesce a dirci qualcosa di straziante sui legami, sulla difficoltà di gestirli, mantenerli e instaurarne di nuovi, anche quando si resta “in famiglia”.



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