La vera sorpresa di Rocketman è che per raccontare una leggenda del rock sceglie uno dei generi considerati più antitetici al genere musicale trasgressivo per antonomasia: il musical.
Non si tratta solo di strizzare un quantitativo congruo di canzoni iconiche di Elton John in un film, ripercorrendone l’ascesa e la caduta (nella cocaina) di un’icona della musica inglese del Novecento. Si tratterebbe di un semplice biopic musicale sulla falsa riga di Bohemian Rhapsody. Invece, pur essendo un progetto figlio di quell’esperienza e con lo stesso regista, Rocketman rivela ben presto di essere fatto di ben altra pasta e di fare giustizia al suo protagonista in maniera umanamente e cinematograficamente più soddisfacente.

Facciamo un passo indietro e torniamo a Dexter Fletcher, il regista fantasma di Bohemian Rhapsody, inserito e poi cancellato dai credits del film nonostante Bryan Singer fosse nel frattempo diventato così persona non grata – un autentico innominabile per tutta la campagna promozionale – da sparire da ogni singola première e intervista. Rocketman è decisamente la sua rivincita come professionista. Non tanto per come sappia ripetere lo stesso racconto di una rockstar umanamente fragile e con tanti passaggi biografici in comune con il cantante dei Queen, ma anzi per come prenda il coraggio a quattro mani e faccia qualcosa di molto differente.

Rocketman infatti si apre con Elton John strizzato in un costume esageratissimo che entra in una seduta di alcolisti anonimi, presentandosi come un alcolizzato, cocainomane, sessuomane, bulimico e vittima di continui e violenti scatti d’ira. Di fatto questo lato particolarmente oscuro viene raccontato in maniera parecchio parsimoniosa del film. Si tratta pur sempre di un progetto finanziato dall’artista (vivente) in questione, quindi non ci si può aspettare la libertà di dire e fare proprio tutto quello che si potrebbe e dovrebbe, nel bene ma soprattutto nel male.

Ed è da questa necessità che Fletcher ricava la virtù del film, trasformando un biopic sulla persona in un racconto delle influenze tra vissuto privato e percorso artistico, ovvero ricostruendo la vita di Elton John con una lunga sequenza di canzoni. Non vengono proposte cronologicamente o nel classico contesto dell’esibizione live, bensì vengono utilizzate per riassumere o evidenziare passaggi importanti della vita dell’artista, dall’infanzia al tentativo di uscire dal tunnel delle dipendenze.

Si comincia da subito quindi con Elton adulto che si ritrova di fronte al sé bambino, in cui cresce il germe del suo male oscuro: un senso profondissimo e inestirpabile di solitudine, alimentato dal rigetto emotivo del padre nei suoi confronti e dall’algido distacco della madre. Il sodalizio umano e artistico con Bernie Taupin (Jamie Bell) non può colmare il bisogno di Elton di sentirsi amato, in una parabola autodistruttiva estremamente personale, purtroppo narrata aderendo pedissequamente a un certo stereotipo dell’ascesa e la caduta dell’artista.

Aggiungeteci il carico da novanta dell’omosessualità e l’incontro con figure manipolatorie come quella di John Reid (Richard Madden) e il risultato è un film che, lungi dall’assolvere il suo protagonista, riesce a problematizzare a sufficienza anche il contesto e le persone che gli ruotano intorno, a differenza del predecessore.

Anche se su finire il film non riesce a sfuggire a una scena assolutoria e redentiva davvero stucchevole e anche se sotto il rating R non si nasconde in realtà niente di così esplicito o scabroso (comunque già solo con la rappresentazione musicale del party che si trasforma in orgia si posiziona mille miglia avanti alla tiepidissima sessualità di Freddie Mercury), insomma, anche se qualche “se” permane, Rocketman è un film ben costruito e diretto, dal ritmo incalzante e capace di raccontare un’icona senza nemmeno scadere troppo nel celebrativo, senza immergersi troppo a fondo eppure evitando quasi sempre di essere superficiale.

Se l’interpretazione di Rami Malek è diventata così celebre da ritorcerglisi contro – passando dall’Oscar ai meme come un Beppe Fiorello hollywoodiano – lo stesso non accadrà con Taron Egerton. L’attore si guarda bene dall’affidarsi a un’interpretazione meramente mimetica, fondendo le proprie spigolature con certi lati taglienti del personaggio, per una prova in cui si percepisce molta emozione e persino un po’ di dolore, per un risultato sicuramente potente e più complesso e sfaccettato della semplice imitazione, per quanto perfetta. Questa è la forza della sua prova, è questo che dà una marcia in più al film, ancor prima delle interpretazioni dal vivo delle canzoni, che aiutano a creare una persona filmica; non è né Taron né Elton, ma la giusta amalgama recitativa tra i due.

Il blog di Elisa è GerundioPresente



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