Quando si parla di tecnologia 3D applicata cinema, spesso lo si fa trascurandone alcune funzioni e potenzialità importanti. Tra le ragioni dell’uso del 3D, a prescindere dall’indiscutibile effetto estetico (che coinvolge lo spettatore a un livello puramente sensoriale), varrebbe la pena considerare l’influenza “concettuale” che questo può avere sullo spettatore, ossia i modi in cui può stimolare bisogni ricettivi e interpretativi diversi.

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Dopotutto, credere che una tecnologia simile sia vincolata ad assolvere solo una funzione impressiva, delegando l’espressione di concetti e sentimenti complessi a costrutti (definiti linguistici ma parimenti effettistici, come la sceneggiatura, la ripresa e il montaggio) sarebbe un grave errore. Purtroppo, i primi a condividere e a esportare l’idea che l’uso del 3D sia da limitare al sensazionalismo visivo sono gli stessi che, quell’equivoco, dovrebbero combatterlo: i registi. Ce ne rendiamo conto ogni volta che ci troviamo seduti in sala a godere un film che si serve della suddetta tecnologia: prospettiva centrale della presenza o del moto di un oggetto, inserimento forzato (nell’economia della narrazione) della sequenza tridimensionale, rimodulazione del ritmo per assecondare l’effetto (rallenty), etc… Nulla, insomma, che faccia pensare a uno sfruttamento alternativo e ragionato.

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Intendiamoci, che un uso di questo tipo sia esibito in determinati generi, in cui l’incanto visivo costituisce uno scopo primario (in maniera diversa i film di supereroi e d’animazione) non fa una piega, ma l’estensione a prodotti “diversamente spettacolari” sembrerebbe avere ragioni piuttosto deboli. All’occasione la tecnologia 3D è riuscita ad apportare un valore aggiunto – Avatar (J. Cameron, 2009), Pina (W. Wenders, 2011), Hugo Cabret (M. Scorsese, 2011) e Gravity (A. Cuaron, 2013) sono solo alcuni interessanti esempi – ma anche in questi casi la sintassi si è dimostrata efficace quanto semplificata.

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Uno dei primi interessanti impieghi della tecnologia 3D, almeno nei termini di un ripensamento linguistico, si ha con il recentissimo The Walk. Robert Zemeckis, creativo e raffinato direttore della regia, ha da sempre garantito, accanto alle straordinarie compagini affabulatorie, un approccio originale alle tecnologie, mettendo alla prova le rinnovabili potenzialità del mezzo. A ben vedere, infatti, non esiste nella sua variopinta filmografia un prodotto che non possieda i caratteri della sperimentazione e rivisitazione dei generi e degli effetti speciali a essi applicati.

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Discostandosi dall’interessante documentario Man on Wire (J. Marsh, 2008), che racconta appunto il Philip Petit in bilico sul filo, il film di Zemeckis si dedica totalmente a descrivere non l’uomo ma l’universo che ruota attorno a “la camminata”. Si tratta di un universo capace di restituire a quell’impresa cause e conseguenze psichiche, sociali, culturali, politiche ed etiche, divenendo al contempo avventuroso e avvincente: una sorta di “biopic di genere”.

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L’aspetto davvero interessante, però, è che alla rigorosa messa in scena, il 3D non viene semplicemente aggiunto, ma sostituito alla cronaca degli eventi. Non a caso, nell’esposizione degli antefatti e dei fatti, uno dei coefficienti che viene a mancare – donando al film un ritmo formidabile – è la tradizionale evoluzione narrativa orizzontale (presente in quasi tutti i biopic), alla quale Zemeckis sembra preferire l’edificazione illustrativa verticale. Spiegazioni ed evoluzioni scompaiono, mentre gag e spazi si accatastano vertiginosamente fino a raggiungere il punto più elevato del World Trade Center.

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The Walk è costruito a partire dal “basso” articolando non solo i più tradizionali filtri, tagli di inquadratura, angoli di ripresa e movimenti di macchina per dare misura alle distanze, ma sfruttando soprattutto la profondità di campo per sondare e attribuire significato agli spazi inutili e vitali, visibili e nascosti, pubblici e privati, accessibili e inaccessibili. Lo vediamo non solo nell’indagine e scelta dei posti in cui Petit comincia a esibirsi, ma anche nel rapporto con i luoghi e gli affetti, la cui praticabilità è sempre il risultato di un compromesso disputato su confini quasi invisibili (la gag del mimo di Annie, o quella finale tra Petit e i poliziotti).

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Come lo straordinario epilogo, incorniciato da territori sempre più lontani e rarefatti che lasciano spazio alla camminata, nulla viene davvero raccontato in The Walk, ogni cosa viene mostrata e sondata oltre il possibile, oltre il reale. Alla fine, anche la commemorazione di una pagina dolorosa della storia americana, rappresentata attraverso gli effetti di luce sulle facciate delle due torri, sfugge alla retorica del caso per farsi nuovamente indagine sullo spazio, un luogo assente e ormai inaccessibile, ma che esiste ancora nella misura in cui è entrato nell’immaginario del singolo e della collettività.



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