Giunti alla terza collaborazione, il talentuoso ed eccentrico David O. Russell dirige la persuasiva e affascinante Jennifer Lawrence in Joy, film singolare dal plot apparentemente banale e dall’articolata messa in scena che, per l’ennesima volta ma qui in maniera ancor più lampante, rivela l’interessante cifra stilistica che contraddistingue il regista newyorkese.

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La storia, che vede protagonista Joy Mangano, madre divorziata e spiantata che raggiunge il successo inventando il Miracle Mop (il mocio professionale più usato al mondo) nonostante le difficoltà economiche, familiari e legali, sembra la riproposizione del classico canovaccio “in America, con la buona volontà, i sogni si realizzano”. Sulla carta, infatti, sembrerebbe il solito biographical drama – ideale, al massimo, per un adattamento televisivo – se non fosse che, tra le mani di Russell, il film si trasforma in un’opera complessa, simbolica e magnetica.

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Diversamente dal classico biopic, Joy è contraddistinto da un particolare impianto narrativo ed estetico – sia regia sia sceneggiatura sono firmate da Russell – che immediatamente trascina lo spettatore in un universo quasi bizzarro, allestito secondo un principio di base: descrivere la realtà come se fosse un sogno (o meglio un incubo) e delineare il sogno (americano) come una realtà cui approdare e, finalmente, vivere e impugnare. La quotidianità descritta in Joy è allucinante e allucinata. Le scenografie soffocanti, strette tra le mura di casa, in cui impercettibili grandangoli e la fissità della macchina da presa alterano gli spazi e mettono a fuoco (a distanza) le situazioni familiari, alle quali fanno eco le statiche e immutabili soap opera che segue la madre di Joy, raccontano un mondo plastificato, stereotipato nella misura in cui si è scelto di cedere all’inettitudine e a una silenziosa disperazione. Il riferimento più evidente e felice dell’insolita messinscena sembra essere lo Jacques Rivette di Céline et Julie vont en bateau (1974) e di Merry-go-round (1981), nei quali l’indagine degli scambi tra sogno e realtà, tra vita e teatro, stabilivano un rapporto atipico tra estetica e contenuto, regalando esiti, il più delle volte, imprevedibili.

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Nella grande casa di Joy, in cui le stanze sono e devono restare comparti pressurizzati – tra le quali solo la protagonista può muoversi liberamente – ogni litigio diviene insopportabile, ogni condivisione è motivo di disagio, ogni gesto uno sforzo, all’insegna di un comune ottundimento psichico. Se inizialmente Joy resta a cavallo tra quella (ir)realtà e il desiderio di cedere ai suoi sogni (spinta anche dalla mistica figura della nonna), in seguito deciderà di assecondare le sue aspirazioni, sopportando il peso di mille difficoltà, che avranno come effetto collaterale sia quello di smascherare le contraddizioni della realtà – è questo il significato della meravigliosa scena in cui, lambita da fiocchi di neve, la donna volge il suo sguardo al cielo scoprendo l’artificio – sia quello di obbligare i familiari a fare i conti con la loro indolenza e meschinità.

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Eppure, l’originalità di Joy non risiede tanto nella perfetta articolazione di eventi che si risolvono in maniera positiva e propositiva – una conquista tutt’altro che scontata quando si tratta di biopic – ma vige nell’impostazione secondo cui ogni blocco narrativo (aneddoti del passato remoto e recente, avvenimenti del presente ed epilogo declinato al futuro) è caratterizzato da una struttura arginata e autonoma, che serve non a raccontare l’evoluzione una storia (tratta da fatti reali), ma a comporre un’avventura fiabesca che, pezzo per pezzo, rivela il senso e il peso dell’esistenza dell’ “eroina”. Allora, nonostante sia stato banalmente suggerito da più parti, non è a Cenerentola che andrebbe accostato Joy, ma ad Alice nel paese delle meraviglie, dove, però, a meravigliare sono purtroppo le più difficili avversità, anche se poi il risveglio avverrà dentro al proprio sogno salvifico…



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