Chi mi conosce lo sa: sono innamorato di Julianne Moore da quando avevo diciassette anni. La prima volta che l’ho incontrata era pettinata come Clarice Starling, l’agente dell’FBI che interpreta in Hannibal: con i capelli rossi lisci e sciolti.
Non è per questo che ho scelto di difendere il film di Ridley Scott, una pellicola che presta inevitabilmente il fianco a più critiche con il suo mix granguignolesco e kitsch di sangue e (leggero) sadismo. Ma l’interpretazione di Julianne resta sicuramente uno dei punti forti di un’opera che, forse, quando uscì era troppo attesa per convincere davvero tutti.
Correva l’anno 2001. Il precedente era blasonato: Il silenzio degli innocenti, meno di dieci anni prima, aveva vinto cinque Oscar. Per il film, la regia, la sceneggiatura e per i suoi protagonisti, Jodie Foster e Anthony Hopkins. Il secondo aveva accettato di tornare nei panni del dottor Lecter, la prima non aveva voluto saperne di interpretare di nuovo l’agente Starling. Il ruolo, così, era andato a una Moore ancora lontana dall’Oscar vinto per Still Alice e non ancora impostasi al pubblico internazionale con la doppietta (che sarebbe arrivata un paio d’anni dopo) Lontano dal paradiso e The Hours.
Se Hopkins tornava a un personaggio che l’aveva reso quasi mitico, ma solo per renderne poco verosimile la ferocia compiaciuta, la Moore, attrice raffinata reduce da una seconda nomination all’Oscar per una perla british come Fine di una storia, raccoglieva la sfida di diventare il nuovo volto di un personaggio che i fan (sia del libro di Thomas Harris sia del film di Jonathan Demme) avevano idolatrato.
Nelle mani di Ridley Scott, che aveva appena diretto Il gladiatore, il seguito delle traversie dello psichiatra cannibale Hannibal Lecter acquista ampiezza e respiro visivo, capace di esaltare il potere delle immagini. E questo è innegabile anche per i detrattori più convinti dell’opera.
Il silenzio degli innocenti era giocato su una scala cromatica ed emozionale contenuta in modo ferreo da Demme. In Hannibal la gamma si allarga: dai blu e dai verdi freddi e plumbei della East Coast si passa ai tramonti infuocati e ai colori caldi della Firenze in cui Lecter si nasconde, godendosi un’anonima nuova vita e il lusso dell’arte, del buon cibo e della cultura made in Italy.
Persino il sangue, quando Lecter viene scoperto da un ispettore italiano, torna a scorrere più abbondante e più rosso che nel precedente di Demme, anche grazie alla bella fotografia di John Mathieson, fresco di prima nomination all’Oscar per Il gladiatore (la seconda arriverà pochi anni dopo grazie al Fantasma dell’opera di Schumacher).
Ahimè, come in molti hanno sostenuto, il materiale di partenza era scadente: il romanzo omonimo di Harris non è più un thriller teso e duro, ma una valanga di ridicole atrocità che provano a strizzare l’occhio all’horror. Per tirarne fuori qualcosa di buono, il canovaccio è stato messo nelle mani di due sceneggiatori di grido come David Mamet e Steven Zaillian. Arduo anche per loro, però, sceneggiare una storia simile e ricavarne un film di qualità.
Mamet e Zaillian sono partiti da dove, probabilmente, avremmo iniziato (quasi) tutti: dal finale. Hanno fatto sparire l’implicazione sentimentale immaginata da Harris, che concludeva il racconto con l’inizio di una liason amorosa fra Lecter e la Starling. Un punto a favore del film. Che Scott dirige con vigore quasi divertito. Non ha paura di mostrare, anche nelle scene dalla crudezza più inverosimile, quel che c’è da mostrare. Impiccagioni con surplus di sventramenti, cinghiali affamati di carne umana, pasti cannibali consumati a vittima non deceduta: il regista non si nasconde certo dietro l’allusione.
A volte è troppo, è vero. Anche perché ciò che resta fuori campo può spaventare più di ciò che entra in camera. E il buon gusto, anche al cinema, distingue un film di ricco spessore immaginativo da una altro che non sa raccontare, ma solo offendere lo sguardo dello spettatore.
Ma, alla fine, il barocco enfatico della regia di Scott riesce a trovare la chiave migliore per leggere una storia così inverosimile: gli angoli di ripresa si moltiplicano, i ralenti si sprecano, colori e suoni cambiano e si distorcono, rigurgiti d’ironia contaminano le scene più truculente.
Un mix abbondantissimo di carne al fuoco – dentro e fuori di metafora – di non facile digestione, apprezzabile se si accetta di mettere da parte la ricerca della verosimiglianza per leggere Hannibal in chiave metaforica. Del resto, a modo loro, lo psichiatra cannibale e l’agente dell’FBI professano una pura coerenza che contrasta sia con la folle cattiveria di uno sfigurato Mason Verger (antica vittima di Lecter interpretata da Gary Oldman) sia con le ombre di chi la giustizia dovrebbe farla rispettare (gli agenti infidi e calcolatori interpretati da Ray Liotta e da Giancarlo Giannini).
Ed è a modo suo efficace quel pre-finale in cui Hannibal arriva a farsi male, e parecchio, pur di non farne alla Starling.
Hopkins è bravo, ma spesso gigioneggia compiaciuto in un’interpretazione non sempre accordata. Mentre Julianne Moore, che non ci fa rimpiangere Jodie Foster, è un efficacissimo concentrato di carisma, misura e vigorosa incisività.
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