E’ trascorsa solo qualche settimana dall’annuncio della messa in produzione del quinto capitolo di Indiana Jones, nel quale Harrison Ford tornerà a vestire i panni dell’archeologo più temerario della storia diretto ancora una volta dal demiurgo Steven Spielberg, che vecchi dissapori sono tornati ad animare le discussioni sulla piega presa dalla saga. L’ultima apparizione del Nostro su grande schermo risale a otto anni fa quando, a distanza di ben vent’anni, l’archeologo veniva a scontrarsi nientedimeno che con gli alieni in Indiana Jones e Il Regno Del Teschio Di Cristallo
(2008), scelta che molti non apprezzarono considerandola ridicola, autoreferenziale, o addirittura irriguardosa.
Indy – si sa – ha segnato l’infanzia e l’adolescenza di almeno un paio di generazioni di spettatori e ritrovarlo in quel film imbolsito, imburberito e acciaccato può aver inferto un duro colpo agli aficionado che si sono visti scalfire un autentico monumento, un eroe che mai avrebbe dovuto conoscere maturità e declino fisico. Egli avrebbe dovuto rimanere confinato negli anni Ottanta, lì dove tutto era suadente ed eccessivo e ogni eventualità, anche la più improbabile, era considerata paradossalmente plausibile. Catapultarlo ai giorni nostri – anche se il film è ambientato nel 1957, a vent’anni di distanza dai capitoli precedenti collocati nella seconda metà degli anni ‘30 – ne ha in qualche modo corrotto il ricordo, costringendo gli spettatori ad aggiornare una figura dall’aspetto, dalla forza e dal ruolo ora indeboliti, un personaggio inadeguato rispetto a un universo non più controllabile, manipolabile e – diciamolo – perfezionabile. Siamo ormai lontani dalla narrativa cinematografica iperbolica degli Eighties e un Indiana Jones incapace di far fronte alla saccente incredulità dei nuovi spettatori, alla pressante richiesta di un superomismo disumanizzato, agli universi appesantiti da un ipertestualità gravosa, rischiava di richiamare solamente l’immagine di un anziano con le braccia incrociate di fronte a un cantiere aperto.
Inizialmente, alla notizia di un nuovo capitolo della saga, anch’io fui vittima degli stessi dubbi, delle stesse remore, degli stessi fastidi. Poi però, all’uscita in sala, corsi a vederlo e ogni timore si dissipò nel nulla, lasciando spazio a una riconfermata stima e un rinnovato affetto. Per questa ragione oggi, dopo anni trascorsi tra ansie somatizzate, crisi ricorrenti e polemiche soffocate, ho deciso di far cambiare idea – o almeno di provarci – a tutti quelli che ancora ripudiano il nuovo “vecchio” Indiana Jones.
Indiana Jones è sempre lo stesso
Il maggior pregio di Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo consiste non solo nel fedele ricalco, sia estetico sia di contenuto, della vecchia trilogia, mantenendo inalterate la qualità narrativa, la forza espressiva e quindi il peculiare spirito, ma risiede anche nel formulare, di pari passo, un discorso critico e puntuale sulla sua stessa esistenza ed evoluzione. Sul piano narrativo e di genere ritornano, come mantra, sia la Grande Avventura – che mai viene portata a termine, ossia la conquista e il reinserimento dell’oggetto della ricerca all’interno di un contesto museale – sia le tradizionali vicissitudini – trabocchetti e ostacoli sul cammino che avvincono e rilanciano in maniera divertente la storia – che fanno del protagonista un eroe, ma anche un individuo semplice e onesto in preda alle più umane idiosincrasie (le gag con i serpenti rappresentano un marchio di fabbrica) e vittima dei suoi principi morali (che tendono a renderlo piuttosto testardo). Il tutto è articolato secondo uno schema elementare, ma molto solido, in cui a un’iniziale situazione di pericolo – Indiana Jones fallisce una delle sue innumerevoli missioni mantenendo un profilo vittorioso, fosse anche solo quello di tenere sulla testa la sua fedora – segue una situazione critica che scaraventa l’archeologo nella nuova avventura.
Da qui in avanti si succedono a rotta di collo situazioni incredibili realizzando le aspettative degli spettatori che, pur non conoscendo la storia, sono completamente agevolati nell’immedesimazione. Reiterate sono le sequenze di lotta in cui il cattivo di turno finisce stritolato da un marchingegno rotante (una ruota schiacciasassi, l’elica di un aeroplano, le eliche di un’imbarcazione o i cingoli di un carro armato), quelle in cui Indiana Jones risolve un potenziale duello senza combattere (l’arabo con la scimitarra, i due thug con la spada, Hitler con la penna), i lunghi inseguimenti sui mezzi di trasporto (carrelli minerari, aeroplani, imbarcazioni, sidecar e motociclette), i cliffhanger (Indy, creduto morto, è in realtà rimasto appeso a qualcosa) e la mistica prova finale che determina la fede e la salvezza di Indiana (il furto del cuore, l’apertura dell’arca, la scelta e il successivo abbandono del Graal). A dire il vero, e come si può notare dagli esempi proposti, già in Indiana Jones E L’Ultima Crociata (1989) è presente un’evoluzione in cui lo schema collaudato tende a riflettersi e ripetersi. Non solo la sequenza iniziale (il recupero della croce in giovane età e in età adulta), i protagonisti (padre e figlio), i reperti da recuperare (lo scudo del cavaliere e il Graal) e i ruoli della figura femminile (amante e nemica) sono doppi, ma anche le direzioni da intraprendere e intraprese e, non ultima, la fatidica prova finale. Tuttavia è proprio in Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo che si evolvono e si accumulano ulteriormente gli schemi e le soluzioni, offrendo una narrazione più complessa e coinvolgente o, per meglio dire, al cubo.
Se la sequenza introduttiva ricaccia Indiana nel passato, proprio nell’hangar 51 dov’è custodita l’arca del primo film, il reperto utile è però qualcosa che, apparentemente, esulerebbe dalle competenze del Dr Jones: il cadavere di un alieno. Ciò può suggerire – insieme al fatto che i nemici non sono più i nazisti, bensì le forze militari sovietiche e statunitensi (uguali e contrarie), che l’universo in cui si trova ad agire Indiana non è più quel luogo in cui egli possiede un posto, un ruolo definito, bensì uno spazio respingente in cui rappresenta – alla stregua degli oggetti ricercati in passato – un reperto da museo. Non a caso, diversamente dagli episodi precedenti, non si trova nell’hangar per sua volontà, spinto dall’impeto della ricerca, ma è un prigioniero rapito e sfruttato per la sua unicità e il suo “valore”. Ragion per cui, subito dopo, egli deve dimostrare la sua irriducibilità chiudendosi in un frigorifero per salvarsi da un test atomico – manifestando la stabilità e la perfetta conservazione del mito – mentre uno scenario sintetico e inerte viene completamente spazzato via.
Comunque, per riassegnare a Indy il ruolo di eroe, a Spielberg basta mostrarne l’ombra nell’atto di indossare il classico copricapo, un momento epico e commovente che la dice lunga sull’immaginario fondato da questo personaggio. Fatto questo è possibile allestire il solito buon spettacolo in cui fanno la loro apparizione vecchi e nuovi personaggi, alcuni facenti parte l’universo della saga – come la rediviva Marion Ravenwood – e altri apparentemente provenienti da scenari diversi, tutti squisitamente cinefili, che si inseriscono e si mettono a servizio dell’avventura – su tutti Mutt Williams, un Johnny Strabler/Fonzie/Indiana Jones Jr capace di incrociare e tenere insieme suggestioni ed epoche differenti, fasti cinematografici e popolarità televisiva e, non ultima, una sana coerenza narrativa ed estetica. Tornano le indagini, le scazzottate, le fughe e le rivelazioni, ma questa volta ogni significante rivela un carattere ipertestuale che rimanda a più significati, connessi tra loro, che ampliano e correggono le direzioni della storia: il triplo gioco di Mac, i tre personaggi che diventano entità unica (una famiglia), lo stesso teschio è un oggetto che viene dal passato, che rinviene nel presente e che permette di accedere al futuro…
Dal canto loro, gli aspetti tecnici come le riprese, il montaggio, la colonna sonora e la fotografia – Janusz Kaminski, in un’intervista, riferisce di aver studiato e tentato di replicare il lavoro fatto da Douglas Slocombe, direttore della fotografia della precedente trilogia – restituiscono alla perfezione i ritmi spericolati e le atmosfere avventuroso/spionistiche tipiche della saga, regalando un prodotto dalla solida messa in scena capace di ispirare nostalgia e curiosità.
Indiana Jones supera le barriere dello spazio e del tempo
Tutto ciò che di Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo determina la fedeltà alla saga, ossia i temi, le costruzioni visive e i personaggi trattati, fornisce anche nuove ragioni e nuova linfa al racconto. La narrazione, infatti, non si focalizza solo sulla vicenda, non resta sul testo, ma riferisce anche qualcosa dell’universo “esterno” in cui Indiana Jones nasce e cresce fornendo, attraverso un citazionismo sfrenato e spassoso, un nuovo significato alla recherche dell’eroe. Non a caso in quest’avventura l’oggetto non è – come negli episodi precedenti – un reperto unicamente materiale, inerte, una vestigia del passato, ma è anche e soprattutto una testimonianza “viva” di altri mondi possibili, un oggetto che più che l’universo narrativo di Indiana Jones richiama quello artistico di Steven Spielberg.
E’ così che i viaggi di Indiana non hanno più come meta l’oggetto e come scopo il semplice recupero – che insieme soddisfano la sete di conoscenza – ma ravvisano il desiderio di valicare i confini diegetici per raggiungere dimensioni altre e accedere a scoperte ulteriori. Per questa ragione l’uso del tema fantascientifico, che s’inserisce sullo strappo già effettuato dal tema fantastico/religioso de L’ultima crociata, allontanandosi del tutto dal dittico realistico/avventuroso de I Predatori dell’arca perduta e Il Tempio maledetto, manifesta non solo un’evoluzione di genere – dovuta a una qualche strategia di svecchiamento del prodotto – ma rappresenta soprattutto un upgrade narrativo in cui sono coinvolte tutte le dinamiche della postmodernità, quelle interessate a traghettare il mito nel tempo e nello spazio, mantenendone intatti i significati e i valori culturali. La sequenza finale, meravigliosamente costruita, rappresenta la sintesi perfetta della complessità raggiunta e della speciale testimonianza di Indiana Jones. In una posizione privilegiata, Indiana osserva il tempio maya sgretolarsi (il passato e l’universo diegetico) a causa della rotazione dell’astronave (il presente e la conoscenza contingente) diretta ne “lo spazio fra gli spazi” (il futuro e l’universo extradiegetico).
Inutile attribuire un significato letterale o scientifico alle parole di Oxley, se non le avete capite fate una cosa: alla prossima avventura, statevene a casa.
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-I LOVE THIS SHIT! VOL.1 – INDEPENDENCE DAY
-I LOVE THIS SHIT! – VOL. 2: WILD WILD WEST
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