Definire folgorante il film del regista taiwanese Hsiao-Hsien Hou è quasi riduttivo. Non a caso ha vinto il premio per la miglior regia al festival di Cannes 2015; riduttivo è senz’altro ritrovarlo in distribuzione ridotta soltanto ora sugli schermi italiani.

Il film che fa della spettacolarità un elemento inscindibile dalla tradizione del genere wuxià (film di arti marziali che mescola elementi fantastici e avventurosi, solitamente imperniato sulla figura di un cavaliere errante), si avvale infatti di una fotografia eccellente, che magnifica i paesaggi e le ambientazioni e, a tratti, conferisce un valore pittorico alle sequenze cinematografiche.

In particolare la parte iniziale girata in bianco e nero, come se fosse una sorta di dipinto a matita, risulta talmente suggestiva da porre in secondo piano la pur interessante vicenda raccontata nel film. Una storia fatta di giuramenti e di difficoltà a mantenerli contro il sentimento e la razionalità.

Il film spesso assomiglia ad un western classico, con guerrieri a cavallo che attraversano grandi spazi e paesaggi incontaminati ed evoca le versioni live-action di dipinti classici cinesi, come se il regista Hou fosse più a suo agio con le scenografie che con le personalità del racconto.

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Nella Cina dell’IX° secolo, Nie Yinniang figlia di 10 anni di un generale, viene consegnata ad una suora che la inizia alle arti marziali, trasformandola in un assassino eccezionale, incaricata dell’eliminazione dei crudeli e corrotti governatori locali. Un giorno, non essendo riuscita in una missione, viene rimandata dalla sua padrona ai luoghi in cui è nata, con l’ordine di uccidere l’uomo a cui era promessa sposa – un cugino, che ora guida la più grande regione militare indipendente nel nord della Cina. Dopo tredici anni di esilio, la giovane donna deve confrontarsi con i suoi genitori, i suoi ricordi e le sue emozioni a lungo repressi, ma Nie Yinniang deve anche scegliere: sacrificare l’uomo che ama o rompere per sempre con la sacra missione dei “giusti assassini”.

In un genere che vive spesso di prodezze sorprendenti, agilità e precisa coreografia, The Assassin ha un incedere lento e maestoso;  la videocamera si sofferma sui dettagli e i personaggi si muovono dentro e fuori dal set squisitamente vestiti e illuminati con sapiente raffinatezza.

Questo non è tanto il tipico film di arti marziali cui Hong Kong ci ha abituato, quanto una sorta di Barry Lyndon orientale. Il modo maestoso in cui il dramma si svolge, a poco a poco ci invita a studiare ogni dettaglio della cornice scenica, come se ci trovassimo in una galleria d’arte. Con tutti quei tessuti pregiati e l’illuminazione delle candele, alcune sequenze sembrano proprio uscite dai dipinti di Vermeer.

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