Quando spiego a qualcuno che per campare, tra le altre cose, scrivo di videogiochi su una rivista la risposta immancabile è qualcosa del tipo “Figata, ti pagano per giocare!”. Che in un certo senso è vero, ma è anche una semplificazione estrema delle notti passate col pad in mano e poi a scrivere, della scomparsa dei weekend, degli altri lavori che bisogna fare per mangiare tre volte al giorno, dei pagamenti in costante ritardo e di tutto quello che qualunque lavoro porta con sé. Anche uno più divertente e meno faticosi di altri – e lo dico avendoli provati, gli altri – come scrivere di videogiochi.
A chi sviluppa videogiochi però va decisamente peggio. Sentirsi dire “Figata, quindi ti pagano per giocare!” dopo aver passato 100 ore a settimana negli ultimi due mesi per portare a termine un gioco sul filo di lana, tra ritardi, rinvii, imprevisti, crisi tecnologiche e un paio di cambi di direzione durante i quali il lavoro già realizzato è finito nel cestino, non deve essere un toccasana per il sistema nervoso.
Se un atteggiamento simile da chi è estraneo al mondo dei videogiochi in qualche modo può essere comprensibile, ritrovarlo anche in chi ha fatto dell’intrattenimento elettronico il proprio hobby principale accumulando ore di vita sui forum e pigne di riviste sulle mensole lo è un po’ meno. Riflettendoci però mi sono accorto che un simile giudizio in fondo pecca di superficialità tanto quanto l’idea che chi lavora coi videogiochi passi la sua vita a godersela su un divano.
Da un certo punto di vista è innegabile che i giocatori spesso si dimostrino poco curiosi nei riguardi dei team di sviluppo che confezionano i prodotti su cui spendono ore. D’altro canto i publisher hanno tutto l’interesse a far sì che si parli dei giochi e non di chi li realizza – e il caso Kojima spiega bene il perchè. Come risultato, queste due correnti convergono nel condizionare la copertura mediatica, quasi sempre focalizzata sui prodotti e troppo di rado sui processi produttivi.
Negli anni, se possibile, l’atteggiamento dei giocatori nei confronti degli sviluppatori è persino peggiorato. L’ingenua e tutto sommato bonaria ignoranza che circondava la figura dello sviluppatore è stata via via sostituita da un atteggiamento sempre più ostile e tossico, eredità diretta del famigerato Gamergate che ha fagocitato la discussione online sui videogiochi dal 2014. Non stupisce quindi che sul finire del 2017 gli sviluppatori di Battlefront II, sparatutto ambientato nell’universo di Star Wars, siano divenuti il bersaglio dell’ira dei giocatori a causa del sistema economico implementato nel gioco.
In fondo le condizioni lavorative, ma non solo, in cui i videogiochi che giochiamo ogni giorno sono realizzati sono ignote non solo al grande pubblico, ma anche a buona parte degli addetti ai lavori. Persino i giornalisti di settore, che nella maggior parte dei casi si interfacciano con PR e addetti marketing, non sempre hanno le idee chiare su ciò che succede dietro le quinte, ovvero dove i videogiochi vengono effettivamente realizzati. Il ricordo nitido che ho della prima volta che sono stato spedito in un press tour all’interno di uno studio di sviluppo sono gli occhi spenti e svuotati degli sviluppatori di passaggio nella cucina comune dell’ufficio, un ambiente di lavoro che da esterno mi sembrava per assurdo il posto più figo che un nerd potesse mai sognare di raggiungere.
Per colmare questo vuoto Jason Schreier, news editor di Kotaku, ha raccolto due anni di interviste messe insieme tra il 2015 e il 2017 per provare a descrivere nel concreto attraverso quali processi produttivi e sociali le idee si trasformino nei videogiochi che noi giochiamo quotidianamente, ma anche a quale prezzo sviluppatori, designer e producer portino a compimento questo lavoro all’apparenza impossibile. Il risultato è un libro dal titolo Blood, Sweat, and Pixels: un racconto sconvolgente per chi i videogiochi è abituato a vederli solo dall’altro lato del monitor .
C’è una frase che sintetizza perfettamente la realtà trasversale che emerge dalle storie lontane e diverse tra loro raccolte da Schreier: “It’s a miracle that any game is made”. È un miracolo che qualunque gioco arrivi ad essere completato. Dalla più grande delle produzioni al più solitario sviluppatore indie, tutti i progetti documentati nel libro di Schreier hanno dovuto in qualche modo attraversare la fase dell’impossibilità ed emergerne profondamente mutati, sia nei bit che nella carne.
L’esempio principe è Uncharted 4. L’ultimo capitolo della saga firmata Naughty Dog con protagonista Nathan Drake ha mandato all’aria parecchie certezze di tutte le persone coinvolte. A partire da Amy Henning, la director del gioco silurata a metà produzione, fino a Neil Druckman e Bruce Straley. I due erano stati i director della saga fino al capitolo precedente, per poi decidere di dedicarsi al loro nuovo progetto The Last of Us. Richiamati in corsa hanno dovuto imporre una piega del tutto nuova al gioco, cestinando asset già pronti e chiedendo turni di lavoro aggiuntivi a tutti, loro compresi. Milioni di dollari buttati e vite stravolte. Una situazione complicata dall’assenza della figura del producer: una politica aziendale di Naughty Dog mirata a caricare ogni dipendente di maggiore responsabilità , senza tenere conto delle conseguenze che l’assenza di coordinazione può generare nei momenti maggiormente convulsi.
Gli effetti di un lavoro che potenzialmente non conosce pausa, che richiede nottate su nottate di coding e soprattutto non viene compreso dai non addetti ai lavori finisce per creare crisi non solo lavorative, ma anche familiari e personali. È il caso degli stessi Neil Druckman e Bruce Straley, convinti di potersi finalmente godere ritmi più compatibili con una vita familiare prima di essere trascinati nuovamente nel turbine di un progetto quasi fuori controllo come Uncharted 4. Non bisogna però credere che questi problemi siano confinati alle grandi, caotiche e sovraffollate super produzioni: anche nel panorama indie le esperienze sono molto simili a questa.
Il caso emblematico è quello di Eric Barone, lo studente che ha trasformato il suo progetto scolastico con cui voleva celebrare Harvest Moon nel successo per PC e console Stardew Valley. Un mix di perfezionismo, testardaggine e fanatismo, impossibile da comunicare all’esterno. Un passatempo di qualche mese divenuto un impegno che ha divorato anni della vita di Eirc. Uno sforzo possibile solo grazie al supporto costante della sua ragazza, mentre Eric si inventava sempre nuove e più vaghe risposte per rispondere alle domande dei familiari. Per poi, al culmine del successo dopo milioni di copie vendute, essere divorato dall’ansia e dalla depressione. O dalla sindrome dell’impostore, come capitato ai creatori di Shovel Knight, angosciati e inseguiti per anni dalle promesse fatte su Kickstarter nonostante le costanti dimostrazioni di fiducia e supporto quotidianamente ricevute da fan ed acquirenti.
A volte però i miracoli non riescono. Il capitolo più interessante del libro è l’ultimo, dedicato al famigerato Star Wars 1313. L’avventura ambientata nel mondo dei cacciatori di taglie dell’universo narrativo partorito dalla mente di George Lucas. Un gioco che si sarebbe venduto da solo, eppure continuamente sballotatto in direzioni diverse prima dall’avvicendarsi dei presidenti ai vertici di LucasArts e poi dall’improvvisa acquisizione da parte di Disney. Passato da pseudo Gears of Wars a open world, 1313 è stato per alcuni mesi di lavorazione un tie-in di una serie tv ambientato nel sottobosco criminale e mai realizzata, poi un gioco con protagonista Boba Fett, modifica imposta dall’alto e all’ultimo momento. Infine, dopo una roboante presentazione al E3, quando tutti ormai pensavano che 1313 avesse un potenziale così grande da permettergli di sopravvivere alla chiusura di LucasArts sancita da EA, magari passando nelle mani di Visceral, il progetto è stato inaspettatamente cancellato, inaugurando la recente maledizione che avvolge i giochi singleplayer di Star Wars e di cui proprio Visceral ha di recente avuto esperienza.
C’è un lato drammatico dietro ogni storia raccontata da Schreier in Blood, Sweat, and Pixels che travalica l’aspetto lavorativo, comunque sempre ben presente. Basti pensare che nel corso di decenni l’industria vidoeludica non è ancora riuscita a dotarsi di standard produttivi e a volte persino terminologici, un po’ per limiti dei suoi attori un po’ per l’imprevedibilità del lavoro, trasformando ogni processo di creazione di un videogioco in una attraversata di una mare in burrasca senza alcun approdo in vista. L’esempio più clamoroso è quello dei Grey Box, prototipi realizzati nella fase iniziali utilizzando solo poligoni crudi utili per far comprendere al volo le meccaniche, che diventano Black Box o White Box da uno studio all’altro. Citando una metafora riportata nel testo, creare un videogioco è come mettersi alla guida di un treno mentre qualcuno corre davanti alla locomotiva, posando i binari un istante prima che le ruote del convoglio vi scorrano sopra.
Gli errori per il sovraccarico dei server al lancio di Diablo III, le gelosia di Bungie nei confronti di Enseble durante la lavorazione di Halo Wars, la vaghezza in termini di trama, direzione e contenuti in cui è stato messo al mondo Destiny: sono solo alcuni dei continui ostacoli che i giochi che finiscono sulle nostre console o nei nostri PC affrontano durante ogni fase del processo produttivo, senza che ne emerga traccia nelle recensioni o nelle interviste spesso filtrate dai PR e più scontate di quelle dei calciatori a fine partita.
Ciò in cui il libro di Schreier riesce particolarmente bene però è nel sottolineare le ripercussioni che questi intoppi lavorativi apparentemente congeniti alla realizzazione di un videogioco hanno sulle vite di chi li subisce, uomini e donne che in condizioni normali sono già costretti a doversi confrontare con tabelle temporali impossibili e impietose critiche in arrivo dall’esterno.
Blood, Sweat, and Pixels è un libro oggi più che mai importante per capire davvero cosa c’è in gioco quando parliamo di videogiochi. Un settore che produce utili per milioni di dollari e poggia sulla strenua volontà dei manovali che si fanno carico delle enormi quantità di stress psico-fisico, dei ritmi lavorativi fuori da ogni logica e della costante precarietà che contraddistingue anche il più autorevole studio di sviluppo. Condizioni lavorative che si possono sopportare solo se mossi da una strenua e incrollabile passione verso il frutto della propria fatica. Dopo aver consumato le quasi 300 pagine del volume non si può fare a meno di credere che anche il peggiore dei videogiochi provato nella propria vita sia stato realizzato con dosi sovraumane di passione e dedizione, che lo hanno senza dubbio reso incredibilmente migliore di quanto sarebbe stato lecito attendersi tenuto conto delle condizioni in cui è stato creato. Per quanto brutto o insoddisfacente, il fatto che qualunque gioco esista è di per sé un miracolo.
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