Osservando la miriade di prodotti che, da qualche tempo, si riversano sulle piattaforme e nelle sale, sembra che gli anni Ottanta siano ormai passati dall’essere un semplice contesto, un’ambientazione o un mood, a vero e proprio testo. Un insieme di “luoghi comuni” assurti a “storie (in)credibili”, spesso senza che sussista al loro interno un nucleo generativo capace di innescare legami stabili e coerenti, non solo con il passato (che tirano allegramente in ballo), ma con un presente riconoscibile e attendibile. Se chi si avvicina agli anta ha più possibilità di cogliere (e godere) il volo pindarico di qualche autore nostalgico, il target di riferimento – spesso i più giovani – potrebbe recepire ciò che gli si pone davanti impagliato come gli uccelli di Norman Bates, l’involucro statico di qualcosa che, forse una volta, era vivo e vibrante. Certo, proprio come quelle bestiole imbalsamate, di primo acchito, si potrebbe scambiarne la morte per una bellezza immortalata e indeteriorabile che vale la pena – quantomeno – di essere guardata, ma il cui rapporto con essa non potrà che rivelarsi a senso unico, senza interazione, privo di pathos – sì, ce l’ho con te Stranger Things.

COBRA KAI – SEASON 2 – EPISODE 202

Tuttavia, a ben guardare, di prodotti che si occupano felicemente di quel decennio ce ne sono di diversi. Su tutti, per la sua capacità di traghettare l’anima del passato nel presente, per la perizia nel rendere attuali paure ataviche e fare della citazione un uso comparativo e propositivo, che si connetta a concetti e condizioni contemporanee (l’utilizzo del web e dei social media; la crisi dei valori e delle strutture socio-economiche; il gap generazionale), citerei la serie Cobra Kai.

Se la prima stagione – di cui ci eravamo accuratamente occupati – si prendeva il tempo per allestire, come scatole cinesi, un microcosmo sconosciuto all’interno di un universo noto (quello di The Karate Kid); con la seconda stagione gli autori si sono impegnati a fidelizzare il pubblico vecchio e nuovo garantendo un involucro affascinante e familiare (fatto di volti e luoghi riconoscibili, il vecchio cast e i vecchi reperti scenografici) e un contenuto sincero e credibile (fatto di personaggi ordinari e dinamiche da teen dramedy). Il risultato è una combinazione perfetta di forma e contenuto che non tradisce né il fulgido effetto nostalgia, né un coinvolgimento spigliato e genuino. Se il “vissuto anni Ottanta” – referenziale e citazionista – è demandato perlopiù comparto comico (le gag e i flashback di cui sono protagonisti Daniel LaRusso/Ralph Macchio e Johnny Lawrence/William Zabka), la “vita vera” è raccontata con piglio più greve, intessendo relazioni familiari e amicali non sempre “facili” e rintracciando nei trascorsi personali le ragioni di certi comportamenti, anche quando politicamente scorretti. Non più, dunque, vittime e carnefici definiti, stereotipi divisi dalla stessa linea che separa il bene dal male, bensì figure sfuggenti che varcano continuamente la soglia, ridefinendo valori e identità ad ogni cambio di scena.

Va da sé che, diversamente dalla saga cult di The Karate Kid, qui non si parla più dello scontro manicheo tra buoni e cattivi, ma di bulli con un cuore e vittime troppo orgogliose, entrambi temprati dalla vita e dalle sue innumerevoli battaglie e pronti a calarsi l’uno nei panni dell’altro. Il mix sapiente è garantito da una scrittura che definire solida è davvero poco. A una sceneggiatura che non “cincischia” mai, fanno da corollario dialoghi brillanti e brevi ma efficaci sequenze d’azione, che significano più di quanto mostrano (la rissa a scuola è da antologia).

Cobra Kai si conferma una serie capace, più che di intrattenere, di aprire al dialogo tra le parti, offrendo un punto di vista intelligente su questioni talvolta insidiose (il senso di appartenenza e l’identità liquida), e tutto senza scordarsi di ammiccare e divertire. Una roba che si vede sempre meno non solo nei prodotti dediti all’ultracitazionismo e all’estetica d’impatto, ma in molta serialità considerata più “nobile”.



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