È impossibile parlare de Il canto dell’usignolo, il libro primo della saga degli Otori, senza parlare della sua autrice Lian Hearn. Nata Gillian Rubinstein in Inghilterra nel 1942, si è laureata ad Oxford dopo aver passato buona parte della gioventù in Nigeria. Il punto di svolta però è il trasferimento in Giappone dove è colpita da una vera e propria folgorazione per le tradizioni e le usanze del paese asiatico al punto da scegliere come pseudonimo Lian Hearn (riferimento a Lafcadio, giornalista e scrittore irlandese a cui si deve la conoscenza del Giappone in occidente alla fine del 1800) per l’ennesimo cambio di vita che la porta in Australia, dove inizierà la carriera da scrittrice, principalmente di libri per bambini.
Pensare oggi a un romanzo ambientato nel Giappone feudale, con con protagonisti orientali e intriso della cultura del Sol Levante, ma scritto da un occidentale, nel pieno delle istanze che stanno giustamente rivoluzionando la nostra percezione della diversità, dei simboli e delle parole, è francamente difficile. Per questo Il canto dell’usignolo è inscindibile della sua autrice e dalla profonda devozione versa la materia d’origine che ne ha caratterizzato la gestazione, di cui il romanzo vuole essere un tributo, ma è anche altrettanto inseparabile da quello pseudonimo, Hearn, che è manifesto programmatico della volontà di diffondere cultura e conoscenza.
Forse è proprio per questo motivo per questo che il Giapppone feudale de Il canto dell’usignolo è un Giappone che non c’era e che non c’è mai stato (ci ricorda qualcosa), un versione quasi fiabesca dell’epoca feudale nipponica, per certi elementi al confine col fantasy, spogliata però della pesantezza dei dettagli storici, nonché di buona parte di quelli stereotipi che siamo abituati ad associare a quella ambientazione. Il risultato è un Giappone idealizzato, una terra scossa da una lotta tra clan di cui è facile percepire i confini, sia geografici che morali, in cui l’onore familiare e personale sono i valori che guidano le azioni di uomini e donne.
Per il giovane Takeo, difendere l’onore familiare vuol dire uccidere Iida e salvare così la vita al nobile Shigeru del clan degli Otori, l’uomo che gli ha dato una nuova famiglia e una vita, il cui imminente matrimonio potrebbe coincidere col disonore o peggio la morte. Tra Takeo e Iida c’è un pavimento che canta, l’opera di un abile artigiano che suona del canto dell’usignolo se sfiorata da un piede e consente a Iida di dormire sonni tranquilli. Se ciò avviene, tuttavia, è solo perchè il tiranno ignora le capacità del più giovane membro degli Otori, i cui talenti sovraumani come la capacità di ascoltare conversazioni a lunghissima distanza, muoversi senza generare rumori o sdoppiarsi alla vista altrui, verranno presta reclamati dalla Tribù, clan di suoi simili, insieme alla sua fedeltà.
Proprio come Lian Hearn, però, anche Takeo ha un passato lontano e un altro nome: Tomasu, il ragazzino che è stato costretto ad assistere alla morte della sua famiglia e di tutti gli abitanti del suo villaggio, colpevoli di appartenere agli Occulti, clan religioso fondato su valori di pace, considerato a tal punto una minaccia da Iida da non esitare a sbarazzarsi di loro personalmente.
Il pregio più evidente della scrittura di Hearn è l’utilizzo di un un linguaggio semplice, eppure efficace nell’evocare le atmosfere desiderate, unito a un preciso rispetto per il lettore. Quando è evidente che due personaggi sono stato colpiti da un provvidenziale colpo di fulmine, oppure di fronte a un incontro troppo ricco di significato per essere casuale, entrambi stratagemmi letterari con cui chiunque ha confidenza quasi a livello inconscio, la scrittrice non si prende mai la libertà di ingannare il lettore, ma svela appena possibile le carte già disposte sul tavole. Si tratta di un patto implicito fondamentale, perchè consente a chi legge di decifrare il contesto di apparente semplicità e alla scrittrice di preparare i colpi di scena che prenderanno corpo nella seconda parte del volume.
Raccontare con semplicità concetti non semplici non è però un’abilità da sottovalutare. Dentro Takeo, mosso all’apparenza da valori granitici come l’onore e la vendetta, si muove il turbamento di chi per le vicissitudini della vita si trova a percorre un cammino opposto rispetto a quello su cui era stato indirizzato, da Occulto predicatore della pace e della non violenza a silenzioso assassino dotato di capacità mistiche. Allo stesso modo la linearità delle trame di corte nasconde nei non detti – o nei sussurrati a favore di Takeo – trame che rendono il confine apparentemente manicheo tra buoni e cattivi decisamente più sfumato del previsto.
Il contraltare e altra estremità del colpo di fulmine di Takeo è Kaede, a cui Hearn dedica i capitoli scritti in terza persona, in contrapposizione alla prima riservata al protagonista maschile. Intorno a Kaede, ostaggio e pedina di scambio utile per entrare nelle grazie di Iida, si muovono le trame più interessanti del romanzo, sostenute da un altro personaggio femminile, tanto enigmatico quanto potente, la nobile Muruyama.
Con lo scorrere delle pagine, insomma, è Hearn ad assimilare da Takeo la capacità di produrre inganni. Quella ingenuità all’inizio spiazzante e poi via via sempre più confortevole non scade nella banalità, anzi, si rivela una cortina fumogena, un abile gioco di specchi che consente di arrivare a un finale di volume che scombussola le carte in tavola, ribaltando i ruoli e sovvertendo le aspettative, anche di genere. Sono le donne a giocare un ruolo importantissimo negli eventi del rocambolesco finale di volume, liberandosi letteralmente e metaforicamente dal rapporto di sudditanza e prendendosi il ruolo di motore della Storia.
Il grande trucco de Il canto dell’usignolo, in fondo, è quello di nascondere i suoi segreti in piena vista, sfidando il lettore ad andare oltre le apparenze attraverso l’ascolto dell’altro, proprio come scopre di poter fare Takeo. Così, di colpo, il libro non racconta più (solo) di un Giappone feudale contaminato col fantasy, ma di un altro mondo che non è mai esistito fino in fondo, quello in cui gli oppressi riescono a riprendersi, anche con la forza se necessario, un loro spazio che qualcun altro più potente di loro nel gioco del meccanismo storico voleva invece cancellare del tutto.
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