Partiamo da qui: le opinioni che seguono sono mie e non rispecchiano necessariamente quelle di Players nella sua interezza. Bene, allora continuiamo: concordo sostanzialmente in toto con l’opinione di Elisa sul film, soprattutto per quanto riguarda la valutazione artistica della pellicola. C’è un passaggio che ritengo particolarmente importante nella sua recensione. Cito:

Joker è un film così furbo per come è stato scritto e realizzato da poter permettere al suo creatore di smentire che sia una pellicola politica. La politica è un lente, una delle tante attraverso cui uno spettatore può guardare al mio personaggio ha dichiarato Phillips in conferenza stampa a Venezia e tocca con rabbia dargli ragione.

A differenza di Elisa, tuttavia, trovo molto più difficile concedere a Todd Philips il beneficio della paraculaggine. Joker È un film politico, che il buon Todd fa di tutto per mascherare, verbo non scelto a caso, con l’intento di dribblare le critiche o forse di sfuggire alle responsabilità. Bizzarro per altro, è notare come Philips abbia fin dà subito fatto ricorso ad argomentazioni politiche per rispondere alle critiche piovute sul suo film, bollandole come figlie di questi tempi in cui non si può dire nulla per colpa della sinistra. Un risentimento che doveva covare da tempo, visto che è arrivato a dichiarare di aver abbandonato le commedie perché oggi sarebbe impossibile far ridere senza che qualcuno si offenda. Ehm.

D’altro canto, risulta difficile credere all’apoliticità della pellicola quando Philips utilizza il linguaggio, la grammatica e la struttura dei film politici della Hollywood anni ’70 (da Toro Scatenato a Taxi Driver, citato abbastanza esplicitamente), realizzati nella stagione più politica nella storia di Hollywood, e persino la loro la loro iconografia (una Gotham che è New York senza alcun tentativo di mascherarla) nel modo più esplicito possibile. L’analisi del suo operato non può dunque che partire dalla prospettiva politica e da questo punto di vista, almeno per quanto riguarda la mia opinione, Joker è un film reazionario, semplicistico, portatore di una tesi nella migliore delle ipotesi ingenua – nella peggiore figlia di tutti quei valori emersi dalle fogne di internet dal Gamergate in poi – e per larghi tratti detestabile.

 

Protagonista sul finale di una scena quasi messianica, Joker diviene leader delle masse, catalizzate e attivate da un gesto che di politico non ha nulla, ma che fuori scena, ben lontano dagli occhi della telecamera, diviene manifesto ideologico della gente di Gotham. Il suo messaggio edonistico ed egoistico si traduce in un movimento i cui valori si riducono a uno slogan: uccidi i ricchi. A voler passare per complottisti si potrebbe sottolineare la vicinanza – quanto meno temporale – con la scoperta della sinistra in USA, coesa nelle frange più giovani intorno alle politiche di Sanders che mirano a ridistribuire la ricchezza dei miliardari. Ma anche tralasciando questo retro-pensiero, la raffigurazione della Gotham che scende in piazza e si ribella presenta un’infinità di aspetti problematici.

Malamente mascherata da lotta di classe, la rivolta è fine a se stessa, è distruzione per il gusto di distruggere, rivincita degli sfigati, non rivalsa degli oppressi. Tutta la motivazione che la smuove si riduce, tirando le somme, alla malattia mentale di Arthur, risposta ad ogni domanda che il film (non) si pone, concentrato com’è a puntare i fari sul suo protagonista, emarginato in un ambiente di emarginati che tuttavia a differenza sua non diventano omicidi, ma risultano così manipolabili da costituire un movimento intorno ai titoli dei quotidiani locali. Non è nemmeno anarchia, non c’è alcun tentativo di superare un sistema oppressivo, solo caos. Masse informi, il cui impulso represso parrebbe quello di mettere a ferro e fuoco la città, e uccidere i ricchi per appropriarsi della loro ricchezza: non si trova traccia di alcun desiderio di giustizia sociale nella rivoluzione di Gotham, solo bramosia e devastazione.

Tutto il resto è rumore di fondo – e non bastano i telegiornali per raccontare il contesto sociale sullo sfondo se non sei Frank Miller. Il limite di partenza, quello di un film dal finale già scritto, Philips non riesce mai a superarlo e partorisce una pellicola a cui mancano guizzi, anche emotivi: non si empatizza con Arthur, ma nemmeno si finisce a detestarlo. L’antipatia la si riserva a Todd Philips, invece, che con il collegamento fumettistico e il “That’s all, folks” prima dei titoli di coda cerca in maniera molto paracula di scansare ogni responsabilità politica, rinnegando in extremis l’ultrarealismo in cui aveva immerso fino a quel momento la sua pellicola.

L’unico messaggio interessante che si può ricavare dal film è l’influenza, forte, ma poco evidente, che le politiche sociali anche a livello locale possono avere sulla società tutta, per quanto nel contesto del film il tema venga liquidato con un paio di battute sul taglio dei fondi e dei medicinali, e infine seppellito dal collegamento diretto tra malattia mentale e la violenza di Joker. Con le sue regolari prescrizioni, insomma, Arthur non si sarebbe mai scompensato e sarebbe rimasto un clown vittima di una vita infelice. Il verdetto dunque è infermità mentale, la scusante a cui si ricorre quando non si vuole, o non si è in grado, di prendersi le proprie responsabilità.

 



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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