Una cosa che non ho mai capito, dei videogiocatori, è perché, da 40 anni, quindi da sempre, soffrano di un bislacco complesso di inferiorità nei confronti degli appassionati di altri medium. Non ricordo di aver mai sentito qualcuno vantarsi di giocare ai videogiochi, contrariamente al frequentare teatro, concerti, cinema (magari festival che fa più fico), o essere esperti in enologia, praticare fitness o altra attività X. E sì che oramai la figura del nerd è oramai accettata e quasi onnipresente al cinema, nelle serie tv, sui social, ovunque. Certo, spesso è una figura discutibile come Ninja o Zuckerberg, ma altrettanto spesso è anche miliardario e ciò lo eleva rispetto alla massa, perché chi ha soldi, ieri, oggi e sempre, sta sempre cento passi avanti e sopra al gregge, che lo segue devoto e adorante.
Ai miei tempi, agli inizi degli anni ’80, eravamo tutti pionieri o, alla peggio, assediati nel fortino. Una setta, gli Illuminati, gruppi ristretti che scrivevano alle riviste di videogiochi, anch’esse formate più da appassionati della prima ora che da giornalisti. La nostra passione era incomprensibile per tutti coloro che non ne fossero contagiati. Già a quei tempi infatti, il fatto di video-giocare era uno stigma ineliminabile.
Ecco allora la spasmodica ricerca di qualcosa che “giustificasse” il videogioco: da Dragon’s Lair a Defender of the Crown, dalle avventure grafiche ai giochi, “narrativi” (la quasi interezza delle produzioni indie che circolano oggi e che puntano sulla narrazione e sulla “pixel art” semplicemente perché chi li realizza non ha una straccio di idea di cosa siano gameplay e level design), ecco perpetuarsi nel corso degli anni la caccia, matta e disperatissima, alla ragione per cui. L’abbiamo trovata? No. Esiste? Nemmeno. Tuttavia, purtroppo, invece di darci pace, continuiamo affannosamente a cercarla.
Questa lunga introduzione è funzionale a spiegare che, come era peraltro ampiamente prevedibile, anche Death Stranding va iscritto a pieno merito proprio nell’elenco degli indie che circolano oggi e che, pur avendo un aspetto tecnico eccezionale, puntano quasi solo esclusivamente sulla narrazione etc.etc., solo che questo è un tripla A, è costato un botto e l’ha fatto Hideo Kojima, cui la qualifica di game designer pare alquanto inadeguata, visto che di “gioco” nei suoi prodotti ce n’è sempre di meno e lui stesso ha ripetuto in ogni occasione che avrebbe voluto fare il regista. Death Stranding sta prevedibilmente ricevendo moltissimi 9/10, spesso acritici e molto probabilmente già decisi dal giorno dell’annuncio del titolo, da qualsiasi testata esistente perché, per molti, è, appunto “la ragione per cui”.
Death Stranding vorrebbe stare al videogioco come come Joker o The Dark Knight stanno ai cinecomic: titoli che possono essere sbandierati dall’appassionato davanti all’obiezione scorsesiana che quel genere è circo ma non cinema. Vorrebbe, appunto, ma l’equivalenza non torna, perché quelli sono ottimi film, questo, anche sforzandosi, NON è un ottimo gioco.
Già l’anno scorso abbiamo assistito a fenomeni di isteria collettiva per Red Dead Redemption 2, che ha preso 10 ovunque e molto spesso “a prescindere”. Tutti esaltati per le palle del cavallo che si muovono realisticamente, nessuno che notasse che di ciccia ludica ce n’era ben poca o, se c’era, era parecchio annacquata. Tant’è che dopo il boom iniziale, durante il quale chiunque si è sentito in dovere di dirci che Red Dead Redemption 2 era il gioco della vita, oggi, fatte salve le news per il lancio su PC, di Red Dead Redemption 2, non parla più nessuno.
Di che parla Death Stranding? Beh, visto che la trama è l’unico elemento di interesse, vi consiglio di andarvi a leggere una delle tante esegesi/analisi/indeep disponibili sul web, visto che nella settimana intercorsa tra le prime review e l’uscita del titolo, quest’ultimo è già stato sviscerato quasi in ogni comparto. Leggendo le recensioni, si nota una polarizzazione piuttosto marcata: c’è chi si prostra supino davanti al Dio Kojima che gli ha illuminato la giornata, altri che ne parlano così così per diecimila caratteri ma poi al termine del pezzo mettono 9 o 10 (tanto la massa guarda solo il numero e tralascia il resto), e pochi coraggiosi che dicono le cose come stanno.
Siccome invece a me spiace quando qualcuno si offende, perché vorrei che lo facessero tutti, vi dirò: Death Stranding è una brutta notizia per i videogiochi. Sì, sì, tecnicamente è eccelso, la recitazione è ottima, tra una passeggiata e l’altra in questo continente vuoto per andare dal punto A al punto B ci sono persino delle (mediocri) fasi sparacchine che si alternano alla “simulazione di Amazon Prime” (copyright di un tizio che ho letto non ricordo dove), che volete di più. Magari un videogioco? Magari del gameplay? Passate oltre. Certo, le, uhm, riflessioni di Kojima, il setting, la caratterizzazione dei personaggi sono ottime e per certi versi interessanti, ma da queste parti, sono spiacente, il “gioco-esperienza” non gode di grande credito. La pigrizia ludica dimostrata, anzi, ostentata da Death Stranding è abbastanza deprimente. Davvero è il caso di premiare un gioco per “la direzione artistica” o “la visione autoriale”, quando il suo cuore pulsante è pressochè inesistente? Eppure unire narrazione e gameplay non è difficile.
Di solito a queste obiezioni il recensore “ordinario”, ti risponde che sei un dinosauro (vero), che il mondo dei videogiochi è cambiato (vero) e che bisogna accettare l’esistenza anche di questo tipo di produzioni (vero però insomma). Ovvio e lapalissiano: il punto è che, visto che si parla di video-GIOCHI, il gameplay non può e non deve MAI passare in secondo piano, specie nella valutazione “numerica” anche perchè, a dare troppa corda a produzioni di questo genere, si sta progressivamente snaturando l’essenza stessa del medium, cui approdano sempre più spesso game designer wannabe che non hanno idea di come elaborare una meccanica ludica appagante, col risultato che Steam o i vari store digitali sono traboccanti di rumenta che manco Roma quando non passa l’Ama (cioè mai, a quanto pare).
Ecco, ora che ho finito, torno a giocare a Tetris 99, un giochetto che ho pagato zero, si basa su un concept di trent’anni fa, dà assuefazione, diverte, spinge al costante miglioramento e ha una longevità infinita. Quanto a Kojima e al suo Death Stranding: sicuramente stravenderà lo stesso e quindi, dannazione, ha vinto lui anche stavolta. Al prossimo giro però ci vediamo direttamente su Netflix, che dici, Hideo?
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