Era solo questione di tempo prima che uno tra i plot più intriganti e divertenti degli anni Novanta venisse impiegato per produrre una serie tv. Multiplicity (Harold Ramis, 1996) – conosciuto in Italia con il rozzo titolo Mi Sdoppio in 4 – trattando in maniera originale e arguta il tema del doppio, la crisi del soggetto e la flessibilità identitaria, rappresenta senz’altro uno dei capisaldi cinematografici della postmodernità che, all’occasione, sembra tornare utile per un’indagine più accurata e un recupero delle ragioni che muovono l’uomo nell’epoca della post-postmodernità, o dell’altermoderno (per dirla con Bourriaud). L’altermoderno, che annulla il principio dell’incertezza del postmoderno, offre l’opportunità di tornare a visitare il passato recente per sviscerare un significato che non è né universale né ideologico e scongiurare l’indeterminatezza.

Se in Multiplicity un giovane Michael Keaton tentava di sopperire alla frenesia della sua vita lavorativa e familiare ricorrendo a tre cloni non proprio perfetti, che davano il via a una funambolica commedia degli equivoci, in Living With Yourself (Timothy Greenberg, 2019 -) – appunto la serie da poco rilasciata su Netflix – uno stressatissimo Paul Rudd, suo malgrado, si troverà a fare i conti con un clone meno macchiettistico e “accessorio” di quelli presenti in Multiplicity, bensì più fedele all’originale eppure evidentemente distante, o meglio, sempre più distante.

Il clone di Miles di Living With Yourself è l’esempio lampante non solo che l’esperienza forma il carattere e influisce sulle strutture delle personalità, ma che la memoria non può esserne l’unica affidabile custode, mentre il corpo è in grado di rispondere (o non rispondere) della verità fattuale. D’altra parte il postmoderno metteva in dubbio proprio la memoria storica (falsata da interpretazioni ideologiche) e non è un caso se già in Multiplicity i cloni possedessero limitati ricordi della matrice e nessun problema di responsività fisica, mentre invece il clone di Miles, possessore di una memoria pregressa completa, sia però in grado di testarne la fallacità e costruirne una propria, scongiurando i pericoli della post-verità. L’altermoderno, con la sua proattività alternativa (e non subordinata), crea le condizioni per ripartire da zero pur con tutta la conoscenza pregressa (ma non statica) del caso. Living With Yourself ci racconta una rinnovazione senza rimozione, un’idea di identità come conoscenza e accettazione di molteplici punti di vista, di condivisione e usufrutto della difformità.

Per queste ragioni, a differenza del film di Ramis, la serie tv si concentra più sulle dinamiche esistenziali e sulle ricadute sociali che sulla natura comica degli eventi, scegliendo di mostrare, attraverso un uso interessante del montaggio parallelo – o meglio, macro-montaggio parallelo – i medesimi eventi da diverse prospettive, da un lato sciogliendo tutti i nodi (narrativi) e dall’altro analizzando minuziosamente cause ed effetti, accumulando così ragioni e ragionevolezze in un elegante assetto di compresenza (e co-protagonismo).
Alla fine, quello che si compie, è un quadro di vita familiare complesso e interessante che – diversamente dal film Multiplicity – sembra accogliere e sfruttare al massimo la liquidità conquistata e la ricchezza della pluralità. E forse, non è nemmeno finita qui…



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