La passata stagione televisiva si è fatta notare per aver scardinato l’assunto in base al quale la durata di un episodio corrisponde anche al genere di appartenenza, e anzi abbiamo visto come lo stesso genere di appartenenza non venga più diviso draconianamente facendolo ricadere in un campo (drama) o nell’altro (comedy) perché una serie può efficacemente offrire sia comedy che drama con l’una a beneficiare della commistione con l’altro. Lo scorso anno è stato anche quello in cui personaggi femminili sono stati – voglio essere ottimista – definitivamente svincolati dalle logiche love interest/madre/donna da salvare per essere rese finalmente a tutto tondo, complesse e stratificate. E su questo “stratificate” si inserisce con involontaria ma appropriata ironia Russian Doll, la serie Netflix che assomma e sublima le suddette caratteristiche prenotando già da febbraio un posto in qualsiasi top ten di fine anno.

Amy Poehler, Leslye Headland e Natasha Lyonne sono le autrici di una vibrante tragicommeddia vergata di humor nero che in meno di mezz’ora desta e cattura l’interesse: non possiamo fare a meno di seguire la trascinante protagonista che ci prende e ci fa cadere di peso nella tana del bianconiglio in cui lei stessa si ritrova.

Natasha Lyonne, oltre che autrice, è la protagonista che resta imprigionata in un loop che ricorda il superclassico Ricomincio da Capo, ma le somiglianze con il film si fermano a questo dato evidente ma superficiale, come ci si accorge addentrandosi nella visione, e a questo proposito vorrei anticipare che Russian Doll è una di quelle serie che rappresentano un viaggio che andrebbe goduto senza conoscerne preventivamente le tappe, né la destinazione. L’unica raccomandazione che mi sento di fare è quella di sottolineare che le promesse dell’accattivante pilot sono mantenute nelle successive puntate, e questo avviene nonostante possa sembrare improbabile che la premessa riesca a reggere per otto episodi. Detto questo, da qui in avanti SPOILER

Nadia sta festeggiando i suoi 36 anni nell’appartamento di un’amica che le ha organizzato un party. La serata inizia sulle esortanti note di Gotta Get Up di Harry Nilsson, con Nadia che si guarda attraverso lo specchio del bagno, e prosegue tra la ricerca del suo gatto, un amante occasionale, un paio di dettagli fuori posto, per poi finire con la propria morte. Nadia si ritrova così a rivivere in loop la sera del suo compleanno e, morte dopo morte, riappare viva, vegeta e stranita davanti allo specchio del bagno a casa dell’amica. E di nuovo tutto da capo. Dopo aver valutato ogni ipotesi passibile di essere la causa scatenante di un evento così surreale – allucinazione, incubo, purgatorio, sortilegio – Nadia arriva ad accettare quello che le accade come reale, inclusa la sua morte, incluso il ritorno nello stesso istante nello spazio-tempo.

Quello che è interessante vedere, a questo punto, è come a ogni ipotesi formulata seguiamo la protagonista muoversi in quella direzione e, nonostante le persone con le quali entra in contatto siano più o meno sempre le stesse, una volta modificato l’approccio al problema, scopriamo nuovi e più profondi aspetti della vita, della personalità di Nadia e delle persone che popolano la sua esistenza. Così l’ipotesi della canna stupefacente ci porta a conoscere il problema di dipendenza di Nadia e forse anche un problema di depressione latente; il pensare che l’edificio, una volta scuola ebraica, sia stregato costringe Nadia a chiedere l’aiuto dell’uomo che ha allontanato dalla sua vita perché il suo unico modo di gestire i rapporti con gli altri è quello di tenere le altre persone a distanza impedendo una reale connessione. Le parole del rabbino a cui si rivolge “Building are not haunted, people are” non solo forniscono una chiave di lettura per la serie stessa, ma anche per la protagonista: per tutta la vita Nadia ha cercato di reprimere il ricordo di sé stessa bambina quando il conflitto tra l’amore per sua madre, e il suo istinto di sopravvivenza che infine l’ha portata a scegliere di vivere con sua zia, si è trasformato in senso di colpa e paura di dover affrontare prima o poi la stessa instabilità mentale sofferta da sua madre. A ogni tentativo di seguire una pista, andiamo quindi sempre più a fondo fino a capire la necessità di Nadia di proteggersi da sé stessa e dagli altri schermandosi attraverso noncuranza e spavalderia.

La vera svolta avviene però quando Nadia conosce Alan, intrappolato come lei in un loop spazio temporale. Quando i due, dopo una reciproca difficoltà a intendersi, stabiliscono una connessione e iniziano ad aiutarsi reciprocamente, capiscono che l’unico modo di sistemare questa sorta di bug di programma è che l’uno aiuti l’altra non solo a scampare da una morte certa, ma ad approfittare di ogni nuova vita per stabilire un contatto sincero e umanamente onesto con le persone che più contano. Nel momento in cui Nadia realizza che esistono infiniti universi paralleli e che in tutti quelli in cui lei è morta sul serio vivono persone che hanno pianto e sofferto realmente la sua morte, capisce che non toccare le persone è impossibile: il tempo è soprattutto come, momento dopo momento, trattiamo noi stessi e come scegliamo di relazionarci con le persone importanti perché scegliere di renderci inaccessibili ha i suoi costi, nonostante paghi sulla breve distanza.

Russian Doll è una bizzarra, incalzante e surreale esplorazione della vita, delle seconde possibilità, e di quel terreno accidentato, impervio, potenzialmente tanto un campo di battaglia quanto un letto di rose che sono i rapporti umani.



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Mara Ricci

Serie tv, Joss Whedon, Jane Austen, Sherlock Holmes, Carl Sagan, BBC: unite i puntini e avrete la mia bio. Autore e redattore per Serialmente, per tenermi in esercizio ho dedicato un blog a The Good Wife.

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