Game Boy The Box Art Collection

Certo col senno di poi sono bravi tutti, ma leggendo in queste sere Game Boy: The Box Art Collection, l’ultimo imponente volume dei britannici Bitmap Books, ho realizzato quanto la lezione del less is more di Nintendo, che ha trovato pieno compimento con Switch, in realtà abbia radici lontane che risalgono fino alla prima vera console portatile concepita in quel di Kyoto.

Benché sia oggi ricordato come uno dei più clamorosi successi commerciali della storia dei videogiochi, il Game Boy ha visto la luce solo grazie al credito in termini di fiducia che il suo ideatore poteva vantare nei confronti di Nintendo. Gunpei Yokoi, infatti, non era un ingegnere qualunque nella scuderai della grande N. Alcuni grandi successi dell’epoca in cui Nintendo era, principalmente, un’azienda di giocatoli si dovevano infatti alla fantasia di Yokoi: su tutti, l’Ultra Hand, un lungo bastone con all’estremità una sorta di mano che si poteva aprire e chiudere meccanicamente, un passatempo nato per ingannare i tempi morti sul lavoro e diventato un gadget venduto in milioni di unità. 

A Yokoi, però, si deve anche l’intuizione che portò ai Game & Watch, si dice esplosa per caso su uno di quei treni affollati che trasportano frotte di businessman al lavoro ogni giorno, osservando un passeggero intento a ingannare il tempo giocherellando con una calcolatrice digitale: perchè non usare quella stessa tecnologia per farne dei giochi?

game boy the box art collection

Per questo motivo quando Nintendo decise di applicare le conoscenze tecniche acquisite grazie al NES a un successore dei Game & Watch, il progetto venne affidato a Yokoi. La soluzione più facile, quella poi seguita da Atari con Lynx e SEGA con Game Gear, sarebbe stata quella di prendere la tecnologia più potente a disposizione, incastrarla in uno scatolotto plastico grosso modo trasportabile e fregarsene un po’ di tutto, consumo in pile stilo incluso. Yokoi, invece, vedeva le cose diversamente. 

Per l’ingegnere giapponese il colore non era una priorità: il nostro cervello, in fondo, è capace di riempire gli spazi se gli si garantisce il giusto livello di immersione. Per riuscirci serviva dunque una console disegnata intorno alle necessità sia dell’utenza che dei programmatori, con una CPU personalizzata che potesse far girare giochi vicini a quelli del NES, i due pulsanti a cui i giocatori erano ormai abituati e in aggiunta magari la possibilità di giocare in coppia attraverso un cavo. Ultimo, ma non meno importante, il consumo: a differenza delle rivali, il game Boy poteva andare avanti a riprodurre giochi per ben 15 ore con solo un paio di pile stilo al suo interno. Tutto il resto sarebbe stato superfluo. Forso Yokoi era il solo a pensarlo, ma la storia gli ha dato ragione. 

Game Boy: The Box Art Collection

Come spesso avviene, però, il successo di una console non può essere scisso dal suo parco giochi, sublimemente celebrato in Game Boy: The Box Art Collection attraverso più di 350 foto di confezioni accompagnate da screenshot e preziosi aneddoti su artwork e processi produttivi. 

Scegliere quali citare in una recensione è complicatissimo, ma una cosa è certa: non si può non partire con Tetris. Il rompicapo di Alexey Pajitnov è uno dei più grandi videogiochi di sempre il cui successo è senza dubbio legato a doppio filo al Game Boy e alla decisione di Minoru Araawa, all’epoca presidente di Nintendo of America, di venderlo in bundle con la console al di fuori del Giappone.

L’approdo su Game Boy di Tetris, per altro, è una storia degna di Intrigo Internazionale, brevemente riassunta nell’introduzione del volume, ma svelata con dovizia di particolai nella graphic novel Tetris di Box Brown che straconsiglio a tutti gli appassionati. Notevole, per altro, che la foto della confezione nel volume sia quella dell’edizione giapponese, che invece dei classici blocchi in caduta immortalati su quella occidentale presentava una raffigurazione stilizzata della cattedrale di San Basilio di Mosca su un muro di blocchi rossi.

Le copertine clamorose, o box art per usare il termine utilizzato da Bitmap Books, sono innumerevoli. tra le mie preferite spiccano quelle di J. League Live 95 e J. League Winning Goal, che riproducono le ingenue e cartoonesche mascotte delle franchigie del campionato di calcio giapponese. Ma ogni giro pagina è un balzo, vuoi per l’assurdità del gioco (Doraemon Kart, davvero? 3-pun Yosou, un gioco di… scommesse sui cavalli?!), vuoi per i personaggi della gioventù sulle cover (DucktalesX-Men, Ranma ½), vuoi per gli artwork pazzeschi (la cover di Baseball Kids è un intero racconto in una sola immagine), vuoi per la qualità pazzesca del gioco (Super Mario Land o Dracula Densetsu per citarne solo due). 

Al di là di tutto, però, il più indiscutibile pregio di Game Boy: The Box Art Collection è la facilità con cui riesce a rituffare chi legge in un’altra epoca in cui i giochi si iniziavano a giocare fin dal momento in cui si scrutava la copertina sullo scaffale o attraverso la teca di una cartoleria, costruendosi una trama e un gameplay a partire da un disegno, che poi ben poco avrebbe avuto a che vedere con le meccaniche ancora piuttosto elementari e stilizzate concesse dagli hadware del tempo. Eppure ogni volta, con ogni copertina, era sempre lo stesso volo di fantasia. 



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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