Se la necessità, oggi, di riportare su schermo il franchise di Mortal Kombat può legittimamente essere messo in discussione, una volta presa questa decisione c’è una sola strada che si può percorrere, ovvero abbandonare qualsivoglia pretesa di serietà e lasciarsi andare all’esagerazione.

D’altra parte, l’esagerazione fa parte di Mortal Kombat fin dalle origini. Nato come risposta occidentale a Street Fighter II, Mortal Kombat è figlio degli anni ’90 e della loro eterna lotta tra lo stile per famiglie e lo stile cool, tra l’approccio di Nintendo al videogioco e quello proposto da SEGA nella sua pur breve corsa nel ruolo del rivale. Anzi, Mortal Kombat è stato forse il massimo esponente di questo secondo approccio, la risposta tenebrosa tanto nei colori quanto nei toni alla solarità di Street Fighter, con i più le celebri fatality: una mossa finale che celebra la vittoria, tra le numerose che si possono citare, strappando a mano il cuore dell’avversario dal petto oppure staccandogli di netto la testa dal corpo, con tanto di colonna vertebrale penzolante. 

Se si sceglie questo come materiale di partenza, non si può pensare di darsi un tono drammatico e serioso, eppure il Mortal Kombat del 2021 diretto da Simon McQuoid almeno per un momento cade in questa tentazione, durante il fin troppo prolisso incipit che riporta le origini della saga indietro fino al Giappone feudale. In fondo è un tentativo lodevole quello di provare quanto meno a incastrare un briciolo di back story tra i combattimenti e i momenti action, ma bisogna tener conto del fatto che nessuno guarderebbe mai un film di questo tipo per la trama, e nei primi minuti Mortal Kombat sembra avere qualche problemi a di dosaggio in questo senso. Poi, per fortuna, le cose cambiano.

Per dare un’idea del cambio di registro, la prima volta che ritroviamo uno dei due samurai già visti nell’incipit, questi indossa di colpo un tunica e una maschera blu, e all’interlocutore che lo chiama per nome risponde: “Ora sono Sub-Zero”. Perché? Non importa a nessuno, in fondo: in un film di Mortal Kombat voglio vedere i personaggi che si menano, non filosofeggiare sui motivi che li spingono a farlo. 

Tutta la trama infatti si regge su gambe fragilissime e le spiegazioni che vengono distribuite esplicitamente convincono davvero poco, a partire dalle regole del torneo, per altro relegato a un porzione di film ridotta, se si pensa che il titolo si riferisce proprio a quello. Le cose vanno molto meglio quando le spiegazioni finiscono e le cose succedono e basta: i lottatori terresti quando arrivano nel Outworld acquistano dei poteri. Perché? Non interessa a nessuno, il pubblico vuole vedere le mosse speciali del videogioco e quello è un modo per dargliele, non c’è altro da sapere.

Mortal Kombat

Nel momento in cui la pellicola arriva a questa realizzazione, il film prende tutta un’altra piega, abbandonando finalmente ogni pretesa che non sia quella di mettere in scena scontri spettacolari e morti splatter. Se i primi sono garantiti da un livello atletico degli interpreti più che discreto e da coreografie ben concepite, che rendono bene il peso massiccio del colpi, tutto il resto è merito della buona CGI messa in campo da WB e dalla decisione, pienamente azzeccata, di spingere sul gore. Tra arti mozzati, cuori strappati ancora pulsanti e corpi smezzati da una sega circolare, la quantità di sangue del Mortal Kombat cinematografico è pienamente all’altezza di quello a cui aveva abituato il videogioco

Una volta imboccato il binario giusto, dunque, il film dà allo spettatore esattamente ciò che lo spettatore-tipo di Mortal Kombat vuole: la comparsa dei personaggi storici, le loro mosse speciali e le finisher, intervallati qua e là da qualche citazione facile facile come “Finish him!” o “Flawless victory!”, anche un po’ sparate a caso in alcuni casi, ma fa niente, l’importante era inserirle. 

Peccato il film non sia arrivato nelle sale, perchè quelli sarebbero stati momenti in cui la reazione del pubblico avrebbe giustificato da sola la visione collettiva, mentre la visione tra le quattro mura domestiche non offre lo stesso livello di esaltazione. 

Al di là delle decisioni distributive (il film da noi arriva direttamente su Sky, mentre in USA è uscito in contemporanea tra sale e HBO Max) l’operazione nel suo insieme resta difficilmente decifrabile, visti anche i valor produttivi non certo da titolo budget messi in campo. Visto come sono andate le cose è quindi difficile immaginare che da qui si si spieghi una multiproduzione in più capitoli, anche se gli ultimi frame paiono puntare proprio in quella direzione, quanto meno come intenzione iniziale. Si spiega poco, dunque, il perchè di un reboot di un brand che non ha particolarmente goduto di esplosioni di popolarità negli ultimi tempi. 

Ma se c’è una cosa che Mortal Kombat mi ha insegnato (e mai avrei pensato di trarre insegnamenti da MK, giuro) è che spesso le spiegazioni sono di troppo e ce la si vive molto meglio se si prende quel che viene senza arrovellarsi troppo. E allora ben venga una pellicola che pretende di essere guardata spegnendo il cervello e che per un paio d’ore azzera i pensieri di quest’ultimo anno e mezzo e, già che c’è, sovrascrive nella memoria collettiva il ricordo trash dei Mortal Kombat cinematografici degli anni ’90 con un sacco di botte, CGI di buon livello e litri di sangue. Poteva andare decisamente peggio. 

 



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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