Il regista de Il diritto alla felicità con Remo Girone non ha dubbi: la conoscenza accresce le nostre difese e la nostra consapevolezza. Come insegna anche la storia di un grande medico citato nel suo film, Albert Schweitzer: «Portò medicine e vaccini in Africa all’inizio del Novecento salvando vite. Anche per questo leggere di chi rifiuta il vaccino mi fa impazzire»
Quando risponde al telefono, la voce è calma, rilassata. Claudio Rossi Massimi è in piena fase di promozione della sua seconda regia cinematografica, Il diritto alla felicità, storia della profonda amicizia inter-generazionale fra il libraio Remo Girone e il giovanissimo Didie Lorenz Tchumbu, che vive in Italia da pochi anni.
Rossi Massimi, però, ha alle spalle una lunga e premiata carriera come regista di documentari, oltre che di programmi di approfondimento. Uno degli ultimi è il docufilm Papa Francesco. La mia idea di arte, da un testo del pontefice.
«Non si preoccupi, non ho problemi di tempo!» ride quando gli chiedo se ha mezz’ora o se dobbiamo accorciare i tempi.
Dopo l’esordio nelle sale alla riapertura dei cinema, Il diritto alla felicità prepara un lancio in RAI dopo l’estate. Oltre che di amicizia, il film parla di cultura e conoscenza, di come il sapere sia in grado di aprire la mente.
Soprattutto in un momento come questo, possiamo dire che la cultura ci rende più liberi?
Sicuramente. La cultura accresce le nostre difese, e non solo quelle intellettuali. Grazie alla cultura ci troviamo ad essere maggiormente protetti da eventuali attacchi esterni: diventiamo più furbi, più attrezzati.
Anche questo film, come la sua regia precedente – La sindrome di Antonio – si inscrive in una sorta di percorso di valorizzazione della cultura…
La sindrome di Antonio è la storia di un ragazzo di vent’anni, i suoi toni erano più leggeri… ma sono d’accordo: del resto anche il protagonista di quel film era mosso da un interesse culturale. Partiva per la Grecia alla ricerca della caverna delle ombre di Platone…
Il diritto alla felicità si allarga invece a temi collaterali più ampi: il personaggio di Remo Girone cita Albert Schweitzer e il suo contributo al progresso medico e alla scoperta di farmaci come i vaccini… un tema molto attuale.
Un tema di grandissima importanza, certo. Chiunque legga la storia del dottor Schweitzer non può che rendersi conto di quanto il suo operato sia stato fondamentale. Nella prima metà del Novecento andò in Africa, dove possiamo tutti immaginare quali fossero le condizioni igienico-sanitarie… e cominciò a realizzare centri medici nei luoghi più remoti e disperati, portando con sé medicine che fino a quel momento non erano mai state a disposizione. All’inizio non aveva nulla, aveva scorte limitatissime… ma iniziò dal vaccinare i bambini. Anche per questo leggere dei no vax, o di chi oggi rifiuta un vaccino, mi fa impazzire: è uno schiaffo alla scienza e al suo progresso, che ha aiutato a vivere meglio, in molti casi addirittura a sopravvivere. Sono convinto che la cultura, oggi, serva ad aprirci gli occhi anche su questo.
Il diritto alla felicità è un film di cui abbiamo bisogno in questo momento?
Ciò di cui abbiamo bisogno è tornare a vivere, e a difendere non solo i luoghi dedicati allo svago, ma anche quelli in cui si vive la cultura. E il cinema è anche cultura. Soprattutto un certo tipo di cinema. Come i libri. Può sembrare scontato, ma oggi è necessario riaffermarlo.
Com’è stato girare nel bel mezzo di una pandemia?
Complicato! Sul set abbiamo osservato tutte le norme anti-COVID, sottoponendoci alle regole che ci venivano comunicate. Ogni mattina il rito dei tamponi. Se avessimo trovato anche un solo positivo, il set sarebbe stato chiuso. Può immaginare con quali problemi e conseguenze di carattere economico. Tutti portavamo la mascherina, tranne gli attori quando recitavano. E poi, naturalmente, c’era il distanziamento… per il possibile: è chiaro che il microfonista e il direttore della fotografia in alcune occasioni non possono rimanere distanziati! Siamo stati fortunati: è andato tutto bene.
Lanciare un film in questo periodo può sembrare un azzardo…
Abbiamo resistito alle sirene del web proprio in un periodo in cui molti hanno ceduto alle sue piattaforme. Il nostro film è abbastanza particolare, girato in una sola location… è quasi una pièce teatrale. Abbiamo aspettato per poterlo lanciare nelle sale. Il film sarà comunque trasmesso in RAI dopo l’estate e sarà distribuito nel mondo da RAI Com. Spero abbia una diffusione capillare. Per il resto… ora vorrei godermi eventuali piccole soddisfazioni legate al suo lancio.
Come regista, c’è una componente narcisistica quando arrivano premi, come al Video Festival di Imperia per La sindrome di Antonio?
Le dico una cosa con estrema sincerità: qualunque regista le dirà che non ha soddisfazione nel ricevere un riconoscimento è falso e ipocrita. Un premio o una buona critica fanno sempre piacere. Così come fa piacere un buon successo di pubblico, anche se ormai – come dice la mia produttrice – le sale cinematografiche non contano più come una volta. Pur con alcune eccezioni che hanno un successo di cassetta, come si diceva anni fa, oggi il buon risultato di un film non passa solo attraverso il successo di pubblico in sala.
Oggi, mentre la scienza ci mette in guardia dal contagio via aerosol nei luoghi chiusi, sente il brivido del rientrare con altre persone in un cinema?
Sono vaccinato. E se entro in un cinema con un posto a sedere ogni tre e con la mascherina… non mi preoccupo. Lo dico senza ombra di critica: abbiamo continuato ad entrare nelle chiese durante tutto il periodo della seconda ondata. Non sto polemizzando, sto solo dicendo che si può entrare in un luogo chiuso se si rispettano le regole.
Questa storia di amicizia fra un adulto e un ragazzino può farci rendere conto di quanto, oggi, siamo tutti un po’ più soli?
Il film racconta un rapporto di affetto fra un vecchio libraio e un ragazzino di colore che da anni vive in Italia: il libraio lo accompagna in un percorso attraverso i libri, a partire dai fumetti per arrivare ai classici della letteratura mondiale. Siamo tutti più isolati, oggi, ma conoscere la nostra cultura ci aiuta ad esserlo meno. Il giovane protagonista del film, grazie ai libri, si integra ancor di più nella società, da un uomo libero in un mondo più libero.
Quali sono i suoi libri del cuore?
Cuore di tenebra di Joseph Conrad. Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez. Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. L’ombra del vento di Carlos Ruiz Zafón. Vado sui classici. Mentre altre persone possono amare di più la letteratura contemporanea. Del resto, un libro ci dà la possibilità di pensare, di discutere… è meraviglioso sentire persone che parlano dello stesso libro e tirano fuori opinioni diverse su ciò che il libro ha lasciato loro. È linfa per la fantasia e l’immaginazione.
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