La star di Fratello, dove sei? e La ballata di Buster Scruggs non credeva di poter sfondare al cinema, e definisce atipica la sua carriera. Oggi che interpreta un padre pieno di segreti in Old Henry ci ha parlato del perché ha amato tornare a girare un western. Ma anche dei suoi figli, delle sue passioni musicali e del suo nuovo metodo di lavoro, fatto di tre regole ferree

 

Tim Blake Nelson è sempre scivolato fra le definizioni. Camaleonte, caratterista, icona di talento, star da quando vent’anni fa i fratelli Coen lo vollero in Fratello, dove sei?. Con qualche fuga di successo anche nel mondo delle serie (per Watchmen è stato candidato al Critics’ Choice Award).

Con due film di Guillermo Del Toro nel futuro prossimo – Nightmare Alley e il nuovo Pinocchio animato – dopo La ballata di Buster Scruggs torna oggi al western. Ma con toni molto diversi. In Old Henry, diretto da Potsy Ponciroli e presentato al festival di Venezia, Tim Blake Nelson è un agricoltore vedovo nell’America di inizio Novecento, che ha un figlio adolescente e un passato oscuro. Quando dà ospitalità a uno sconosciuto ferito la cui borsa è piena di denaro, capisce che è solo questione di tempo perché arrivino i guai.

Lo incontro a Venezia ventiquattro ore dopo aver visto il film. Il giorno prima, alla conferenza stampa, è arrivato in un completo grigio e azzurro elegante, vagamente chic. Al termine, ha firmato autografi ai fan appostati all’uscita con pazienza sorridente. Oggi, al lounge del Tennis Club invaso dalla luce del sole del pomeriggio, il look è casual: è il più antidivo delle star passate in Mostra quest’anno.

Old Henry è fuori concorso, ma del film al Lido si discute parecchio. Lui, seduto di fianco a me su una poltrona di fronte al bar, è entusiasta di parlarne.

 

Avevi già maneggiato una pistola di recente, in Ballata di Buster Scruggs. Eri preparato?

In Old Henry non ci sono sparatorie come quelle a cui il cinema ci ha abituato. Qui si spara in modo molto diverso. Buster Scruggs è un performer: più sai di lui, meglio è. Henry è l’opposto, vuole che la gente lo conosca il meno possibile. Non spara da più di venticinque anni e, quando torna a farlo, lo fa per proteggere non se stesso, ma suo figlio: deve salvare una vita più importante della sua. C’è una sorta di conflitto interiore in quest’uomo, teso fra il voler essere qualcun altro e l’emergere di una parte che ha cercato di reprimere. Anche per questo, quando guardi il film, inizi a farti delle domande. È un western, quando arriverà la sparatoria? Lui morirà? Violentemente?

 

Tim Blake Nelson in Old Henry (Hideout Pictures / Shout! Studio)

 

Tu come ti saresti trovato nel vecchio West?

Credo bene. Avrei fatto il venditore… magari sarei diventato sindaco! Ma non penso mi sarei trasformato in un attaccabrighe violento. Gli eroi dei western sono piuttosto individualisti. Del resto, è l’individualismo a contrapporre l’America e l’Europa: da voi prevale il collettivismo. Forse il western è la quintessenza dell’arte americana perché a noi piace pensare a noi stessi, ci manca un senso di comunità. In fondo la nascita degli States si è basata sulla libertà religiosa e sul no taxation without representation. Gli Stati Uniti sono una democrazia giovane che è riuscita a espandersi verso l’Ovest con prepotenza: l’eroe western è un individualista che usa la pistola. Eppure, per un attore americano, credo che poche cose siano eccitanti come recitare in un western!

 

Sembri molto a tuo agio anche nel cavalcare.

Non sono bravissimo, me la cavo. Sono cresciuto nella periferia di Tulsa, in Oklahoma: non avevo cavalli in giardino. Mia moglie è sempre stata più brava. Ma ho cavalcato più volte al cinema, farlo in Old Henry non è stato un problema.

 

Hai dato a Henry una fisicità enigmatica, non comune in un western…

Diciamolo, sembro un gargoyle. Professionalmente è una fortuna. Non mi sono mai guardato allo specchio pensando che avrei girato così tanti film. Credevo sarei diventato un attore di teatro. La mia è una carriera piuttosto atipica: è stata una benedizione incontrare i Coen, Guillermo Del Toro, Terrence Malik… e tutti i registi che hanno voluto i miei colori così strani nei loro dipinti cinematografici. Sono contento che mi vogliano anche per la mia fisicità: non ricevo copioni noiosi!

 

 

Essere padre ha reso Old Henry un’esperienza più intima?

Sto tirando su tre figli: cerco di proteggerli dalla violenza del mondo e da tutte le sue storture… la tecnologia soprattutto! [sorride, ndr] Viviamo a New York, una città che può essere pericolosa a tarda sera. Per Henry non c’è niente di più importante del crescere suo figlio e del farne una brava persona. Da padre, trovo che la sceneggiatura non abbia nemmeno una nota stonata. L’età adulta, poi, porta con sé comportamenti diversi, e crescere è anche un processo di repressione di impulsi che non puoi sempre sfogare: Old Henry parla anche di questo. Interpretarlo è stato catartico.

 

C’è qualcosa di toccante nei suoi tentativi di proteggere suo figlio. Sei d’accordo?

Ho amato la relazione fra padre e figlio che è al centro del film. E ho avuto la grande fortuna di avere mio figlio sul set: lavorava nel reparto costumi, è stato con noi quasi ogni giorno delle riprese. Prima di girare il dialogo finale fra Henry e suo figlio, di cui è meglio non dire molto per evitare spoiler, ho chiamato mio figlio e gli ho chiesto di avvicinarsi. Senza dare nell’occhio, senza velleità da attore, in modo molto spontaneo. E ho semplicemente fatto così [tace e dà colpi leggeri e intermittenti con la mano al mio ginocchio destro, in modo molto paterno, ndr]. È stato un aiuto incredibile.

 

Hai metodi diversi per prepararti a ruoli diversi?

Posso dirti che negli ultimi anni il mio metodo è cambiato. Ha tre punti fermi. Primo. Tendo a non accettare una parte se non posso prepararla per almeno un mese; sei mesi sarebbe l’ideale… diciamo un periodo fra sei mesi e un mese. Secondo. Non vado sul set più tardi di una settimana prima dell’inizio delle riprese, anche se di norma chiedono agli attori di arrivare con uno o due giorni di anticipo sul primo ciak, per contenere le spese. Terzo. Imparo tutte le mie battute prima di iniziare a girare. Non importa quanto la parte sia lunga. Ogni giorno sono pronto a girare qualsiasi scena: so dov’è il personaggio, cosa deve dire, cosa gli capita. Mi permette di lavorare in modo più onesto e più rilassato. Non mi piacciono la superficialità e le interpretazioni stinte che porta con sé: non voglio sprecare le opportunità che mi vengono date.

 

 

E quando hai girato una serie come Watchmen? Come hai fatto? Eri in sei episodi…

Ripetevo in continuazione a Damon Lindelof: per favore, dammi tutto il materiale appena possibile… io lavoro così. Ho passato buona parte del tempo sul set a leggere e studiare la sceneggiatura dell’episodio 5: lì sono praticamente in ogni scena. Ho avuto lo script in anticipo e ogni giorno mi prendevo diverse ore per rileggerlo. Sul set non ho avuto tempo libero.

 

Quando non giri, che musica ascolti?

Prima di diventare padre, molta musica americana. Jazz tradizionale: Charles Mingus, John Coltrane… Musica classica. Reggae. Poi i figli ci hanno ringiovanito portando in casa musica nuova. Adesso amo l’indie rock e addirittura l’hip hop… una volta lo trovavo misogino e sempre uguale a se stesso, oggi l’ho riscoperto.



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