Prologo: vedi Baltimora e poi muori (?)
Ascrivetemi pure tra chi non crede che una storia possa avere un inizio e una fine. Cionondimeno, credo che da qualche parte bisognerà pur cominciare a raccontare, e allora cominciamo dal 1849. Mi chiederete perché abbia deciso proprio per questa data. La risposta è semplice: è l’anno in cui il protagonista della nostra storia muore e quale incipit più adatto per parlare di un cantore della fine che non è la fine1?
Siamo a Baltimora, Maryland; un uomo sulla quarantina, capelli corvini, occhi infossati, vestito di stracci e tuttavia circonfuso di un’aura di somma dignità, giunge al Washington College Hospital privo di conoscenza. Chi o che cosa lo abbia ridotto in quello stato è un mistero. Il Dr. Moran gli presta assistenza, ma non sa che pesci prendere. Il paziente è in preda ad agitazione, allucinazioni, e agiti deliranti; tutti segni compatibili con la diagnosi di “febbre cerebrale” (qualunque cosa significhi). I posteri ricondurranno il quadro patologico all’intossicazione da alcol, da oppio, o da entrambe le sostanze: tutte balle, è risaputo che Poe fosse astinente da mesi e la possibilità di una ricaduta è fuori discussione2.
Le ipotesi più attendibili concordano tutte su un unico indiziato: il Lyssavirus, altrimenti noto come l’agente eziologico della rabbia. Ma certo nemmeno questo può spiegare il fatto che indossi abiti che non gli appartengono, le tumefazioni sul viso, né l’ossessione per un nome: “Reynolds!”. Non è il suo, di nome — come non lo erano Henri Le Rennet, Quarles, né chissà quali altri usati nella sua vita. Il suo vero nome è Edgar Allan Poe e il dilemma sui suoi ultimi giorni continua ad ossessionare milioni di persone, ma di sicuro non me: per i veri appassionati di misteri, le soluzioni sortiscono l’effetto del laudano. Quel che trovo davvero interessante è lo strano sogno che Mr. Poe fa prima di morire. C’entrano un bacio, un addio e una sensazione di ineluttabilità del destino. Al risveglio si ritrova su una spiaggia3, tra le mani stringe granelli di sabbia, li osserva scivolare nel mare. Si sveglia di nuovo, questa volta per davvero, e realizza di aver fatto un sogno dentro un altro sogno. Ne cristallizza il ricordo nella forma di ventiquattro versi che rimandano all’immagine di una clessidra — simbolo dello scorrere del tempo, ma, a ben vedere, anche del suo incessante ritorno. È dunque questo Sogno dentro un sogno il suo lascito?
Il 7 ottobre 1849 Edgar Allan Poe muore, ma il suo spirito non ci abbandona.
Luoghi liminari, uomini e topoi, flanellare tra la folla, l’eterno ritorno dell’iper-revenant (che in realtà non se n’è mai andato)
È uno di quei pomeriggi sonnacchiosi di un maggio pandemico, spettri di crisi economica e perturbazioni paranoidi attraversano la psicosfera quando un libro misterioso fa la sua apparizione nella cassetta della posta. Noto con piacere che la copertina evoca orrori antichi e spauracchi archetipici, mentre il titolo, che recita Edgar Allan Poe – The Horror Gamebook, rimanda in maniera inequivocabile alla natura dell’oggetto che ho tra le mani: un librogame, un esemplare appartenente a una razza che credevo estinta da decenni sfuggito alla stasi della formaldeide per rivivere come un enigma criptozoologico fuori dalla sua linea temporale.
Lo ammetto, sono già conquistato: lo apro e a pagina due vi trovo scritto “Non leggere questa introduzione…” — a tutti gli effetti un invito a leggerla, bella trovata — e prosegue così “No, davvero, non andare oltre questo paragrafo: The Horror Gamebook è pensato per farti vivere un’esperienza totalmente immersiva […] tuffati nell’abisso e buon divertimento!”. Che idea meravigliosa, mi dico, quella di giocare con un testo ristrutturato per l’occasione in un playground dove è possibile esplorare, scoprire, pasticciare, andare oltre i limiti della lettura lineare e fare un ulteriore passo nelle profondità del testo; immergersi, magari non nell’abisso, ma nelle cavità tra le stratificazioni interpretative e girovagare nelle circonvoluzioni narrative fino a smarrirvisi. Cosa significhi giocare con un librogame ce lo riassume ancora l’introduzione:“[…] un racconto a bivi, dove la narrazione procede in base alle tue scelte; dovrai risolvere dei rompicapo e trovare degli oggetti per sbloccare alcuni percorsi, ma anche se non dovessi riuscirci, potrai procedere comunque”.
Vuol dire calcare gli stessi mondi fittizi che Poe ha costruito con la cura di uno scenografo, dove le parole costituiscono a un tempo il ruolo di decorazioni e di elementi portanti — con la risultante estetica che ha una bellezza rigorosa, logica, matematica, ognuno scelga l’aggettivo che preferisce —, per creare ambienti dove le architetture contorte della mente gettano le loro ombre sui luoghi esteriori (e viceversa). Qualche brano esemplificativo per dimostrare che non si parla a vanvera lo ritroviamo in Eleonora, un racconto scritto da Poe nel 1841, dove la narrazione ci conduce nella valle dell’erba multicolore, a tutti gli effetti una proiezione miragistica dell’idillio amoroso vissuto dal protagonista (un’immagine riflessa dello stesso autore) con la sua giovane sposa cugina:
“Eleonora si chiamava mia cugina. Si era sempre vissuti nella stessa casa, sotto un sole tropicale, nella Valle dell’Erba Multicolore. Mai un piede non appositamente guidato era penetrato in quella valle; dappoiché essa si stendeva in remoto luogo fra montagne gigantesche che la sovrastavano a picco tutto intorno, chiudendo alla luce del sole i suoi più dolci recessi. Non c’era sentiero che vi portasse; e per raggiungere la nostra felice dimora bisognava rimuovere il fogliame di migliaia e migliaia d’alberi silvestri, e calpestare la gloria di milioni e milioni di fiori dal profumo soave. […] Dalle oscure regioni ch’erano al di là dalle montagne al limite superiore del nostro chiuso dominio, sgorgava e strisciava giù uno stretto fiume profondo, splendente più di tutte le cose che non erano gli occhi di Eleonora; e serpeggiava in numerosi meandri, sinché, per una gola tenebrosa, non se ne andava traverso a montagne ancora più fosche di quelle dalle quali era uscito. […] Qua e là, poi, a ciuffi tra quell’erba, si elevavano, come immagini di sogno, fantastici alberi dagli alti tronchi sottili leggiadramente piegati in direzione della luce che a mezzogiorno si affacciava sul centro della valle.”
(da Eleonora, trad. di Elio Vittorini).
L’appuntamento invece è ambientato in una città, Venezia, della cui collocazione geografica nessuno credo potrà dubitare, ma la serenissima ritratta da Poe è qualcosa di diverso dall’immagine condivisa dai più. Le sue acque sono oscure e impenetrabili come il mutevole fluire dei sogni e i suoi palazzi, che si stagliano a ridosso dei canali come giganti dormienti, disegnano uno sfondo da città maledetta e decadente. Ma affidiamoci alle parole dello stesso Poe:
[…] Venezia, regale stella del mare, le ampie finestre dei cui palladiani palazzi guardano profonde d’amarezza sulle segrete acque silenziose. […] Era una notte più buia del solito. Al grande orologio della piazza era già suonata l’ora del coprifuoco. E la piazza era silenziosa e deserta, con le luci del Canal Grande io me ne tornavo a casa in gondola, dalla Piazzetta.[…] Discendevamo così, come un enorme condor nero, verso il Ponte dei Sospiri, quando d’un tratto migliaia di fiaccole fiammeggiarono alle finestre e giù per la scalinata del Palazzo Ducale trasformando quella notte profonda in un livido chiarore sovrannaturale.
(da L’Appuntamento, trad. di Elio Vittorini).
È interessante notare come non occorra neanche aspettare che la vicenda venga messa in scena: è sufficiente la sola costruzione dell’ambiance a risucchiare il lettore in un vero e proprio incubo ad occhi aperti. Per dovere di cronaca, devo avvertirvi che questi due racconti non sono presenti nel librogame, ma il discorso comunque non cambia. Ciò che importa è che abbiamo a che fare con evocazioni più che con descrizioni, panorami in cui la precisione dei dettagli lascia il posto alle spennellate impressionistiche e la nitidezza dei contorni sfuma nella macchia, nell’ombreggiatura, nel velamento. Si tratta costrutti onirici o ricordi reali? Forse la risposta sta nel mezzo.
Trattasi di ambienti liminari, corpi callosi situati tra gli emisferi della realtà — sonno e veglia, razionale e irrazionale, amore e morte, e così via — dove i fantasmi dell’inconscio varcano questa fantomatica soglia per materializzarsi davanti ai nostri occhi. Affinché tutto ciò possa realizzarsi, la narrazione deve innescarsi con quel minimo di plausibilità in grado di catturare l’interesse del lettore e condurlo in questi territori intermedi. E quali espedienti migliori della confusione mentale, lo stato di alterazione e un pizzico di sana follia? In fondo, è quasi sempre il narratore a mettere le mani avanti in merito alla sua attendibilità: «non sono pazzo, ma…», sono ubriaco, però…», «questo è quanto, ma prendetelo con le molle»; è così che solitamente cominciano i racconti del bostoniano, sicché, accettando per vere queste insolite circostanze, ci si trova trascinati all’interno di ville lugubri, tetri manieri diroccati, segrete ipogee, posti impregnati di residui emotivi e impronte mnemoniche, ricordi di amori sepolti e misteriosamente riapparsi in carne e ossa. Strutture precarie, sempre sul punto di crollare assieme alla sanità mentale dei protagonisti (che spesso sono gli stessi narratori) delle vicende che vi prendono parte. Storie che quasi sempre riguardano tre motivi fondamentali: amore, morte e bellezza; che però ritornano con combinazioni ogni volta diverse dando forma a un caleidoscopio dark dove ricorrono e si rincorrono temi quali doppelgänger, ineluttabilità del fato, morte apparente, ritorno dalla tomba, tafofobia, vendetta, senso di colpa, autoafflizione, fascinazioni morbose e perturbanti; tutto pane per i denti dei primi psicoanalisti, che di lì a poco sarebbero partiti da Vienna allo scandaglio del subconscio umano4.
Ma, se mi è concessa l’ennesima divagazione, mi piacerebbe riflettere sul caso più intrigante di impollinazione culturale tra un racconto di EAP e quella che al di là dell’Atlantico prende il nome di flânerie. Charles Baudelaire la descrive come l’arte di bighellonare per i marciapiedi cittadini senza una meta particolare e, soprattutto, senza alcuna fretta. Immerso completamente nella corrente della vita urbana e posto in una condizione di assoluta permeabilità emotiva, il flâneur si trova ad essere un navigatore di correnti psichiche e al contempo un medium in grado di entrare in contatto con lo spirito del luogo5 attraverso una pratica cui qualche temerario ha dato il nome di psicodromia. Poe si trova dunque a precorrere i tempi ancora una volta, giacché il suo uomo della folla non è che un infaticabile flâneur, con un piede al di qua del limine, nella terra del fenomenico, e l’altro piantato nella psicosfera, che si nutre di quell’energia statica che sussiste tra la gente e che si convoglia sotto la superficie calpestabile della Londra sferragliante e fumigante di metà ottocento. Ad ogni modo, sempre di questo si torna a parlare, come potete vedere: spiriti, spettri e revenant; dopotutto è un po’ quello in cui EAP si è effettivamente trasformato, perpetuandosi attraverso la sua arte e riuscendo a riattualizzarsi a ogni generazione. Non è un caso se lo ritroviamo a infestare con diverse forme e frequenze:
- gli incubi di H.P. Lovecraft;
- le diverse frange dell’American Gothic Fiction;
- le detective stories;
- le feste di Halloween;
- Jules Verne, posseduto dalla necessità fisica di dover dare una conclusione alle avventure di Arthur Gordon Pym;
- il cinema espressionista tedesco e, per trasmissione verticale, quello di Alfred Hitchcock;
- la casa di Bruce Wayne;
- la sovraffollata copertina di Sgt. Pepper;
- il surrealismo dei primordi;
- la Casa di Foglie;
- Baudelaire;
- il multiverso di Dungeons and Dragons;
- la soffitta di Stephen King;
- Franz Kafka, “fratello di spirito”;
- Horacio Quiroga;
- le arborescenze più dark ed eerie del new weird;
- Jorge Luis Borges;
- eccetera eccetera eccetera.
Ma è proprio nella contemporaneità che la presenza di EAP si fa sentire più che mai, come una sorta iperspettro che pervade i nostri tempi, o come la narrazione metaforica di oggetti che hanno assunto dimensioni troppo grandi per essere compresi in un unico colpo d’occhio, metastasi di un’angoscia che incombe drammaticamente sulla società umana. Oggetti inconoscibili nella loro interezza, ma solamente intuibili attraverso la razionalizzazione dell’irrazionale, nel sogno (o più spesso nell’incubo) ad occhi aperti, come l’immagine di un pendolo falciforme che ogni giorno si fa più vicino alle nostre teste, o come l’inesorabile discesa all’interno di un maelstrom che trascina la nostra civiltà verso la singolarità degli eventi: il riscaldamento globale, l’inquinamento, le pandemie, e altri drammi quotidiani in cui sprofondiamo fino al collo ma che rifiutiamo di accettare.
In tutto questo, io mi sento come schiacciato dall’enorme e indescrivibile peso di un macigno sulla testa e mi ritrovo inevitabilmente a domandarmi chi o cosa sono. Voglio dire qui e ora, mentre sto leggendo e giocando con queste unità narrative ricombinanti (ma, a pensarci bene, anche come individuo immerso in un gioco a bivi di complessità ben maggiore). Sono forse semplicemente un ospite di una narrazione ipertestuale chiamato a costruirsi la propria avventura con le sue stesse mani, districandosi tra vicoli ciechi e le trappole tese dall’intreccio degli eventi? O magari uno spirito che anima un corpo artificiale, un vascello bipede creato apposta per accogliere la mia essenza permettendomi di camminare tra bivi e biforcazioni? Eppure questo vascello pensa, ha paura, soffre, e molte volte io che lo manovro non posso che guardarlo agire in preda al puro impulso, come un uomo la cui coscienza è obnubilata dall’assenzio.
Ecco: sono solo all’inizio dell’avventura e le contorsioni mentali hanno già raggiunto vette altissime – e so che proseguendo la situazione non potrà che peggiorare. Ma, prima di sbracare completamente, mi vorrei soffermare sull’aspetto cruciale che riguarda il funzionamento di questo sofisticato congegno ludonarrativo, ossia la sua combinatorietà.
Bohemien prosody, le mille vite di Mr. Poe, ars combinatoria e computatori analogici di carta
Sarebbe bello poter constatare di persona l’influenza di EAP sugli scrittori coevi. Ma dato che la scienza non è ancora arrivata a costruire una macchina del tempo, dovremo accontentarci di un altro tipo di tecnologia, la stessa di cui era in possesso lo stesso Poe: l’immaginazione creativa. Ahh, mi sembra di sentire l’odore di alghe putrescenti salire dal molo sulla Senna che si mischia a quello delle baguette appena sfornate. Siamo a rue de l’Hirondelle, Parigi. Vedo un tizio piegato su un tavolino fuori da un bar, è ubriaco fradicio e bofonchia qualcosa tra sé e sé «C’est quelque visiteur qui sollicite l’entrée, à la porte de ma chambre—quelque visiteur qui sollicite l’entrée, à la porte de ma chambre; c’est cela et rien de plus.». Ma quello non è… Baudelaire? Cercavo proprio lui, guarda il caso. Avviciniamoci, ho proprio voglia di scambiarci due chiacchiere:
– Sbaglio o questi sono versi di Poe?
– Hmm? Le piacciono? Allora sono i miei.
– Veramente a me sembrano proprio dei versi scritti da Edgar Allan Poe.
– Ohh, quel Poe. Certo, certo, come no.
– Dica un po’, ma lei quanti Edgar Allan Poe conosce? Mi faccia capire.
– Ma soltanto uno, che domande!
– Ah, ecco.
– E quell’uno sono io, naturellement.
– Non mi faccia ridere, lei non è Edgar Allan Poe.
– No, ma mi piacerebbe. Anche se…
– Sì?
– Anche se forse…
– Dica, dica.
– Ecco, se ci penso bene, credo che sarebbe impossibile per chiunque vivere una vita come la sua. O meglio, di vivere tante vite quante ne ha vissute lui.
– Eh già. Troppa vita per un solo uomo, verrebbe da dire. Quasi come se quel tizio palliduccio con la fronte spaziosa non fosse stato altri che un avatar, un involucro mortale per diverse anime succedutesi al suo controllo, non crede? È una follia, me ne rendo conto, ma, dopotutto, non vedo in quale altro modo potrei spiegarmi la quantità di storie vissute dell’autore di Boston.
– Ma certainement! E allora, follia per follia, perché non potrei essere io stesso l’incarnazione di una frazione dello spirito plurale del vecchio Poe?
OK, adesso ne ho abbastanza. Lasciamo pure Charly al suo delirio emulativo e torniamo a noi. Va detto però che su una cosa il nostro amichevole bohemien di quartiere non ha si tutti i torti: Poe ne ha passate talmente tante che a fatica si riesce a tenerne il conto. In poco più di quarant’anni c’è stato un EAP scrittore di horror e di proto-gialli6, un iniziatore della fantascienza moderna (al cui abbrivio darà ulteriore impulso H.P. Lovecraft, naturalmente), un autore di poesie senza tempo e di saggi che ne spiegano i segreti della composizione7, fondati in larga parte sul calcolo e la logica. A tal riguardo, forse non tutti conoscono il Poe debunker, capace di sbrogliare i misteri più ingarbugliati della sua epoca con l’aiuto dell’arguzia e della sua capacità analitica. Sorpresi? E perché mai? Non è forse del padre letterario di Auguste Dupin che stiamo parlando? Per quanto ci è dato sapere, è proprio l’investigatore parigino il personaggio a lui più simile per raziocinio e propensione all’analisi psicologica9. E se questo aspetto emerge chiaramente nelle avventure investigative del suo detective dilettante, un po’ meno evidente potrebbe sembrarlo per i racconti del grottesco e dell’arabesco.
Eppure è proprio così che stanno le cose: fantasmi, vampiri, e redivivi in fondo non sono che ombre cinesi, emanazioni di menti scompaginate dall’agire caotico e purtuttavia sottoponibili all’analisi raziocinante del protagonista/narratore che spesso finisce per trascinare nel gorgo delle sue elucubrazioni l’intera narrazione. Una lettura più attenta dei racconti e delle poesie rende esplicito il Poe-pensiero riguardo la composizione, e cioè la preminenza della ragione sull’ispirazione, dello studio meticoloso sul genio (e con questo direi che si dirime anche l’equivoco sull’ascendenza romantica del nostro). Nel saggio Situation de Baudelaire, Paul Valery vede in Poe “Il demone della lucidità, il genio dell’analisi, l’inventore delle più affascinanti e nuove combinazioni della logica con l’immaginazione, del misticismo col calcolo, lo psicologo d’eccezione, l’ingegnere letterario che approfondisce e utilizza tutte le risorse dell’arte…”. D.H. Lawrence lo paragona invece a uno scienziato per la maniera in cui osserva i suoi personaggi interagire. Come reagenti chimici in un esperimento, essi si attraggono, reagiscono e si consumano liberando energia. E siccome “in natura nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”, Lawrence descrive l’intera opera di Poe come una narrativa della fine – o della decomposizione – che però è anche rinascita, e della rinascita che è l’inizio di una nuova fine. Detto in sintesi: una scrittura delle trasformazioni.
C’è poi il dissoluto, degenerato, frequentatore di bordelli, insidiatore di fanciulle, ma questo, si sa, non è che un ritratto calunnioso tratteggiato dal suo più acerrimo nemico Rufus Wilmot Griswold8. Forse meno conosciuto è il Poe cacciatore di dote, ma non siamo troppo bacchettoni: quello che cercava era soltanto fama e gloria – nulla di diverso da quello che cercano tutti gli scrittori del mondo – e naturalmente una moglie ricca che lo mantenesse nel caso in cui le cose fossero andate male. E a Poe le cose andavano spesso male, in effetti, ma mica per colpa sua: a quell’epoca in Inghilterra c’era questa simpatica usanza di non pagare i diritti agli autori d’oltreoceano per le ristampe delle loro opere e considerato il fatto che Poe sia stato uno dei primi scrittori a vivere dei proventi della propria arte (o di averci perlomeno provato), beh, non è difficile immaginarne le conseguenze.
Alla carriera di scrittore di fiction procede parallela quella di giornalista e critico sagace per il Broadway Journal. E del Poe astronomo che mi dite? Niente, perché non è mai esistito, certo. Ma d’altra parte, come diceva Carl Sagan, l’idea che arte e scienza siano in rapporto di mutua esclusione fa un disservizio ad entrambe le branche del sapere. Ed è per l’appunto in uno scritto di mirabile sintesi tra poesia e pensiero scientifico intitolato Eureka che Poe giunge alla formulazione di una teoria cosmogonica comprensiva di alcuni temi che sarebbero stati poi affrontati dalla cosmologia moderna, tra i quali la teoria del Big Bang e la soluzione al paradosso di Olbers. C’è poi un Edgar Allan Poe immaginato dai più come un pallido e inquietante omino, impallinato di cose macabre e incubi dell’oltretomba. E questa immagine, per quanto caricaturale, non è certo meno credibile delle altre: sarebbe strano il contrario, considerato che malattie e morti premature, oltre alla fascinazione per la narrativa gotica, sono elementi che caratterizzano la sua vita sin dall’infanzia fino a diventare temi portanti della sua poetica. E poi, comunque, al vecchio Poe non dovevano dispiacergli troppo le ospitate nei salotti borghesi per leggere con voce impostata i versi de Il Corvo davanti a un pubblico acclamante.
Dall’insieme di questi fatti (e di altri10 non citati soltanto per motivi di economia testuale), si può constatare come vita e opere si incastrino in un unico mosaico, che, visto nel suo insieme, appare in tutta la sua coerenza, ma sotto la lente d’ingrandimento rivela chiaramente la sua struttura particellare ed eterogenea. È proprio nell’incastro ricombinante di queste tessere – e nella natura dei nuovi legami formatisi tra esse – che il corpus narrativo prende forma e vita. La combinatorietà dopotutto è il comune denominatore della produzione letteraria di EAP, da cui trarranno ispirazione una lunga teoria di ammiratori e veri e propri esegeti, che scorgeranno in questa metodologia le stesse qualità logopoietiche e divinatorie della cabala, delle permutazioni dei tarocchi, delle configurazioni dei 64 esagrammi dell’I-Ching. Anticipare stili e generi (e persino intuizioni scientifiche) per il vecchio Edgar era dunque consuetudine non per chissà quali poteri vaticinanti, ma per una semplice questione di ars combinatoria… praticamente un gioco.
Adesso, pensate che bello se i Gamebook li avesse concepiti egli stesso: mi ritroverei al punto in cui un cerchio perfetto si chiude e tutti gli elementi finiscono per inanellarsi, e invece… beh, in realtà una cosa ci sarebbe da dire a riguardo, che, ok, no, Poe non ha inventato i librigame, ma ha pur sempre portato il concetto di variazione nell’ambito della narrativa breve attraverso il rimescolamento degli elementi e delle modalità di interazione. Direte voi: “e quindi?”. E quindi occorreva solo un piccolo passo, una volontà di riarrangiare la struttura testuale in una forma che avesse regole e outcome prevedibili, affinché si desse vita a quello che può essere considerato come un calcolatore analogico11, una macchina di cellulosa e inchiostro avente il duplice scopo di raccontare una storia e di divertire attraverso il gioco.
In fondo, dalle iterazioni narrative di Usher, Ligeia ed Eleonora ai primi Gamebook c’è la stessa distanza che separa le invenzioni di Erone dalla macchina a vapore: giusto quel migliaio di anni che possono mettere in ridicolo il paragone che ho evocato, certo, pur tuttavia si tratta di uno spazio che è enorme e anche minuscolo a seconda di come lo si osservi, uno iato in mezzo al quale sono passati postmodernisti e borgesiani di ogni latitudine, con anni e anni di esperimenti di letteratura potenziale prima di arrivare finalmente ai vari generatori di situazioni ludiche quali Lupo Solitario e compagnia bella. Se dunque un libro è un labirinto formato da una sola linea, un librogame è invece un nesso dove convergono e comunicano diverse trame possibili e dove l’elemento interattivo porta il rapporto tra autore, opera e lettore tanto caro ad Umberto Eco su un piano di complessità superiore. Un giardino i cui sentieri raramente sbucano nella direzione sperata, che spesso invece si interrompono senza preavviso, presentano ostacoli inaspettati, quando non veri e propri tranelli tesi dall’architetto12.
Giocarci equivale ad esperire una rappresentazione astratta del mondo in cui viviamo, come intuire le caratteristiche di un territorio osservandone la mappa. La sua natura ludica, d’altro canto, si basa su una successione di enigmi posti a sbarrare la strada al giocatore – messa così non è difficile osservare una rappresentazione metaforica della vita di ognuno. Leggere, ragionare, vivere: i tre concetti cominciano a confondersi e a sovrapporsi, ma mica per colpa mia. La colpa, se proprio di colpa si deve parlare, è di come è fatto il nostro cervello e di come ci spieghiamo le cose che percepiamo. È la realtà che è fatta così o siamo noi che amiamo complicare le cose? Chi può saperlo. Quando poi anche il linguaggio – ossia lo strumento che abbiamo in dotazione per spiegarci la realtà – va in tilt, allora c’è poco che possiamo fare.
Le parole stesse si ingarbugliano tra le radicazioni degli etimi: vale la pena allora ricordare che riddle (indovinello) deriva dall’inglese antico rǣdels, che sta per “congettura” o “opinione”, imparentato a sua volta con rǣdan, cioè “interpretare”, che contiene la stessa radice etimologica di “read”. “To read” che deriva dal latino reri, traducibile come “ragionare”, progenitore dunque anche di “ragione”, “reason”. Risolvere gli indovinelli significa dunque aprirsi una strada nelle profondità di questo congegno ludonarrativo, e, dopotutto, cos’è l’enigma, se non la più elementare forma dell’inconosciuto, la molecola del mistero che attende di essere svelato e che interagisce come un composto chimico con l’ingegno e la curiosità? Se ne potrebbe dedurre non solo che, sotto sotto, tutti i giochi siano degli indovinelli, ma che la stessa realtà, per come la percepiamo, sia fatta della stessa materia di cui sono fatti i puzzle.
A dream of two cities / A game dreamed by Poe / Il sogno delle scatole cinesi
L’aver tirato in ballo la flânerie nel primo paragrafo potrà sembrare velleitario, ma vi assicuro che non lo è affatto, perché in questo Edgar Allan Poe – The Horror Gamebook si cammina e tanto. Si cammina leggendo. E, leggendo, si esplora una città orrorifica e labirintica, le sue strade invase da roditori e i suoi edifici in rovina abitati da personaggi grotteschi che brindano all’incedere inarrestabile della morte. L’appassionato di EAP riconoscerà la prigione de Il pozzo e il pendolo, il palazzo de La maschera della morte rossa o l’appartamento angusto de Il Cuore Rivelatore; il videogiocatore, d’altro canto, non mancherà di scorgere una certa somiglianza con una città dalla fama altrettanto macabra, celebre per essere l’ambientazione di Bloodborne, il fortunato ActionRPG di FromSoftware. Mi riferisco naturalmente a Yharnam e al suo melange impossibile di architettura preindustriale e incubi allo stato solido.
Sotto molti aspetti le affinità sono palesi, ma è attraverso l’analisi delle divergenze che è più facile delineare le caratteristiche del citybuilding. Se il destino delle due città è la rovina – ambedue funestate dalle epidemie – è nelle cause che risiedono le differenze. La sventura di Yharnam sopraggiunge come contrappasso per l’avidità dei suoi abitanti, mentre la città senza nome paga le sindrome dell’abbandono e il senso di colpa che attanagliano il suo signore. Yharnam è un incastro di cliché architettonici gotici, tra archi rampanti e pinnacoli vertiginosi, della città senza nome invece si sa poco, se non che nasce come una mirabile opera di sartoria che intreccia velature e giochi di trasparenze, lasciando all’immaginazione del lettore/giocatore l’onere di colmare i vuoti. Osservando dalla giusta distanza, si noterà che questo tessuto sembra riprodurre lo schema di quel complesso processore di storie che ospitiamo tra le orecchie.
Da un’altra angolatura, invece, noterete il delinearsi di un ritratto anamorfico lasciato come un segno dentro un sogno: il soggetto è il principe poeta, colui che continua a infestare queste terre anche dopo la morte. E no, non è una suggestione, gli occhi del quadro si muovono per davvero, ma sono quelli di Valentino Sergi che seguono cinicamente ogni mossa del lettore/giocatore nel labirinto. Il Sergi è un tessitore di intrecci, maestro di dissoluzione e coagulazione di storie, dedito all’ideazione e la pubblicazione di giochi da tavolo, giochi di ruolo, fumetti e, per l’appunto, gamebook con l’Officina Meningi da lui fondata. Insomma, se cercavate l’architetto del labirinto, eccolo là.
Il punto però è che, in questo marchingegno infernale, noi non siamo affatto soli. Quello messo in atto dal Sergi è un artificio narrativo del tutto inaspettato, che apre un nuovo livello nell’architettura del dedalo, cosicché, se possiamo immaginare l’autore osservare i nostri movimenti, noi stessi osserviamo quelli di qualcun altro, come in un astruso sistema di scatole cinesi. Già, ma di chi si tratta? Alcuni lo conoscono come avatar, per altri è un semplice automa che come il golem di Praga rischia di rivoltarsi contro il padrone13, i videogamer invece sono abituati a chiamarlo playing character.
Questo disgraziato vessato dai torturatori, confuso dalle nostre scelte, vittima di ogni genere di nefandezza che gli precipitiamo addosso, è una fortuna che sia intrappolato nel testo, altrimenti chissà cosa ci farebbe. Poverino, lui ci prova anche a fare di testa sua, come quando una sequenza di decisioni infelici lo portano a provare sfiducia nei nostri confronti o quando certe situazioni particolarmente spiacevoli lo lasciano traumatizzato. La sua peculiarità infatti risiede nella capacità di acquisire esperienza nel corso dell’avventura e comportarsi di conseguenza, talvolta sfuggendo al controllo del giocatore stesso. Come si può biasimarlo? Ci vuole una bella forza a vivere la propria morte decine/centinaia di volte e non augurare come minimo la stessa sorte a colui che ne è la causa.
A tal proposito, va sottolineata un’innovazione peculiare e sagacemente meta introdotta dal Sergi, ossia il ciclo di morte e rinascita del personaggio implementato come passaggio fondamentale per imparare dagli errori e quindi avanzare nel gioco, che richiama tanto le meccaniche di gioco care a FromSoftware quanto il giudizio di Lawrence sulla poetica di Poe. La morte, dunque, non solo non è che l’inizio, ma non è nemmeno una punizione per i propri sbagli. Anzi, si potrebbe dire che sia un’opzione consigliabile, quella di morire al fine di acquisire esperienza e quindi di avanzare nell’avventura. Il fondamento di questa felice trovata risiede nella natura qualitativa dell’esperienza, non misurata in punti dunque, e di conseguenza non spendibile come moneta in cambio di nuove abilità. In altre parole, è come se questo costrutto a mano a mano acquisisse la capacità di imparare dagli errori e, di conseguenza, pensare – seppure in una forma basilare e meccanica, si capisce – aprendo a un gioco di riflessi(oni) sulla natura dei personaggi di finzione, su dove essi vivano dopo la fine della storia, sul ruolo dell’autore, sulla questione del libero arbitrio. Ma al di là di tutto, ciò che conta è che queste caratteristiche donino all’avventura il piglio di un gioco di ruolo, pur senza farragini di sorta quali dadi e statistiche: non serve altro che carta e penna come supporto mnemonico per annotare svolte e bivi, oltre che per risolvere gli indovinelli che ostacolano il cammino. Architettati con arguzia e incastonati alla perfezione nel corpo ludo-testuale, gli enigmi consistono perlopiù in problemi di logica in modo da offrire una sfida dalla difficoltà sempre ben bilanciata.
In ultima analisi val la pena chiedersi che cosa sarebbe questo librogame senza le illustrazioni di Francesco Corli. Di certo funzionerebbe in ogni caso, ma con un potenziale di coinvolgimento decisamente inferiore. Catalizzatori di straniamento, additivi di inquietudine, i disegni condensano le impressioni abbozzate dalle parole e materializzano immagini nate quasi duecento anni fa dalla fantasia di Edgar Allan Poe.
Epilogo
Ascrivetemi pure tra chi non crede che una storia possa avere un inizio e una fine. Cionondimeno, credo che in qualche modo bisognerà pur finire, e allora fermiamoci qui, nel 1849. Un uomo distinto, vestito di nero, osserva la città di Baltimora dalla prospettiva del molo. Qualche mese prima ha fatto un sogno, nel quale ha intuito il segreto del tempo. Ora fissa la strada davanti a sé, i crocevia, gli svincoli. Sa già quale destino lo attende, o quale dei tanti, perlomeno. Si ferma per un istante, apre un libretto, sfoglia le prime pagine e vi legge ciò che sarà, ciò che è e ciò che è stato. Il libro è la forma di tecnologia più avanzata del mondo, una macchina del tempo, un processore di storie. Davanti a lui una moltitudine di possibilità e una sola verità: la fine non è che un nuovo inizio.
Note:
1: Dalla postfazione alla raccolta “Racconti del Terrore”, di Edgar Allan Poe: “È questa la chiave di lettura di Edgar Allan Poe e dell’arte americana che viene dopo di lui. Quando un albero avvizzisce, alla fine dell’anno, perde gradualmente tutta la vita di quell’annata finché non gli rimane che il solo tessuto elementare. Sembra che pressoché nulla resti, eppure l’albero è solamente ridotto allo stato di perfetta quiete che deve necessariamente comparire tra un ciclo vitale e l’altro. Poe ci mostra il primo vivido ribollire provocato dal disfacimento della psiche, i primi convulsi spasimi che si verificano nell’animo umano quando termina l’ultimo impulso della passione creativa originata dall’incontro con l’altro. È come un albero che, portati a maturazione i propri frutti, stia cominciando ad avvizzire sotto la morsa del primo gelo. […] Poe è un uomo che si dibatte nel mistero del disfacimento in sé. È una grande anima morta che segue il terribile, lungo processo dell’attività post mortem fino alla disintegrazione”, D.H. Lawrence.
2: Le condizioni dettate dalla sua ultima fiamma (che poi era anche la prima, ma non l’unica) erano “o la smetti di bere, o la mia mano te la scordi” e Poe non avrebbe mai tradito la parola data a una signora.
3: “La spiaggia ci ricorda lo spazio. Granelli di sabbia fine, più o meno della stessa grandezza, prodotti dalla spinta, lo sfregamento, dall’erosione e dall’abrasione di grandi rocce attraverso i secoli, portati dalle onde nel tempo scandito dall’alternarsi della luna e il sole. La spiaggia ci ricorda anche del tempo.” (Carl Sagan, Cosmos).
4: Nel suo “Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio”, Freud riconobbe agli artisti la capacità di arrivare con l’intuito a risultati cui gli psicanalisti sono giunti solo attraverso il duro lavoro. In particolare dei poeti disse “sono alleati preziosi e la loro testimonianza deve essere presa in attenta considerazione giacché essi sanno in genere una quantità di cose tra cielo e terra che il nostro sapere accademico neppure sospetta”.
5: Da Wikipedia: “Il Genius loci è un’entità naturale e soprannaturale legata a un luogo e oggetto di culto nella religione romana”. Sempre da Wiki: “Nel tempo moderno, genius loci è divenuta un’espressione adottata in architettura per individuare un approccio fenomenologico allo studio dell’ambiente, interazione di luogo e identità. Con la locuzione di genius loci si intende individuare l’insieme delle caratteristiche socio-culturali, architettoniche, di linguaggio, di abitudini che caratterizzano un luogo, un ambiente, una città”.
6: “La Lettera Rubata” : il (genere) giallo = “Amen, brother” : l’hip hop.
7: Fatto più unico che raro per un artista, un po’ come se un mago decidesse di spiattellare al pubblico i suoi trucchi.
8: In una stesura alternativa, questo articolo si aprirebbe con la morte di Poe per cause misteriose, ma tutte le prove farebbero pensare ad un omicidio. Rufus Wilmot Griswold, che, con l’attuazione di un arzigogolatissimo piano, sarebbe riuscito a farsi nominare esecutore letterario del suo rivale e poi l’avrebbe ucciso in modo che la causa potesse ricondursi ad una vita di dissolutezze. Il movente è semplice: Griswold avrebbe covato per anni un odio più profondo di qualsiasi abisso che l’animo umano possa raggiungere, nato da una spietata critica di Poe indirizzata ai poeti inseriti in un’antologia redatta da Griswold (nella quale era presente lo stesso Poe, oltretutto). Come dargli torto, in effetti: “[incolla la critica di Poe]”. La faida prosegue quando Griswold succede al rivale come [redattore al] e si inasprisce quando i due [] per conquistare i favori di []. Dopo la morte di Poe, Griswold impiega tutte le sue energie per nascondere dietro un muro di menzogne e [] nel tentativo di destinare la sua memoria all’oblio. Ma poi sappiamo tutti come sia andata a finire – scommetto che è dall’inizio di questa nota che vi state domandando “Griswold chi?”. A conclusione di tutto ciò, spero apprezziate lo sforzo da parte del sottoscritto di raccontare questa storia (che parte da premesse inventate e tuttavia giunge a conclusioni verissime e verificabili) come se fosse un remake de La Botte di Amontillado con un epilogo ribaltato rispetto all’originale e la regia di Ridley Scott.
9: In una stesura alternativa, questo articolo si aprirebbe con la morte di Poe per cause misteriose, ma tutte le prove farebbero pensare ad un omicidio. Rufus Wilmot Griswold, che, con l’attuazione di un arzigogolatissimo piano, sarebbe riuscito a farsi nominare esecutore letterario del suo rivale e poi l’avrebbe ucciso in modo che la causa potesse ricondursi ad una vita di dissolutezze. Il movente è semplice: Griswold avrebbe covato per anni un odio più profondo di qualsiasi abisso che l’animo umano possa raggiungere, nato da una spietata critica di Poe indirizzata ai poeti inseriti in un’antologia redatta da Griswold (nella quale era presente lo stesso Poe, oltretutto). La faida prosegue quando Griswold succede al rivale come editor al Graham’s magazine e si inasprisce con la competizione per conquistare le attenzioni della poetessa Frances Sargent Osgood. Dopo la morte di Poe, Griswold impiega tutte le sue energie per nascondere dietro un muro di menzogne l’opera dell’autore di Boston, nel tentativo di destinare la sua memoria all’oblio. Ma sappiamo tutti com’è andata poi a finire — scommetto che è dall’inizio di questa nota che vi state domandando “Griswold chi?”. E questa storia (che parte da premesse inventate e tuttavia giunge a conclusioni verissime e verificabili) non è che La Botte di Amontillado con un epilogo ribaltato e la regia di Ridley Scott.
10: Come ad esempio l’Edgar Allan Poe atleta, il militare, il rinnegato, ecc.
11: Il critico letterario Northrop Frye diceva che il libro è la macchina più efficiente mai inventata, e io non solo mi trovo d’accordo, ma gli rubo anche l’idea.
12: Ehi, io non volevo dirlo, ma siete voi che state pensando a Inception.
13: Badate bene: il golem si animava con delle parole scritte su di una pergamena (le direttive dell’alchimista/programmatore), l’avatar invece è fatto tutto di parole, letteralmente (ehm, scusate).
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