Bellissima, ricchissima, talentuosissima, famosissima. È stata una vita al superlativo assoluto quella di Daphne Du Maurier, così perfettamente bilanciata tra buone frequentazioni, splendide dimore e gusto impeccabile da risultare irritante. Neppure l’irritazione o l’invidia però giustificano l’enorme disparità di attenzione tra la vita di questa scrittrice inglese e quella delle sue madrine letterarie, le sorelle Brontë.

Sarà la pornografia del dolore a spingerci a leggere con trasporto quintali di biografie e guardare sceneggiati BBC dedicati alle condizioni di vita precarie delle tre sorelle (e del dimenticato fratello)?

La vita di Daphne Du Maurier, la scrittrice inquieta di eroine volitive e atmosfere gotiche del Novecento inglese, è troppo straordinaria e sfavillante per interessarci, o forse ci suscita invidia? Oppure è ancora una volta colpa di Rebecca, tormento e estasi di Daphne, il cui strepitoso successo le venne vaticinato da un amico come la colpa imperdonabile che le avrebbe negato l’accesso nel ristretto clan dei grandi della letteratura inglese?

Siamo nel 2017 e Daphne, in quel club, ancora non è entrata, anzi, fatica ad affrancarsi da quella vaga aura dispregiativa di letteratura femminile e di sensazione, sebbene le sue inquietudini siano alla base di quelli che nel caso di un certo Alfred Hitchcock consideriamo colpi di genio.

Oltre alla produzione accademica, i due tentativi più credibili di raccontare al grande pubblico la Daphne dietro a Rebecca e Rachele li hanno scritti, nell’ordine, la di lei sorella Angela (perseguitata a vita dall’impietoso paragone con la più popolare scrittrice in famiglia) e Tatiana De Rosnay, un’avida lettrice francese diventata sua biografa, tradotta di recente da Neri Pozza.

Proprio dalla Francia, dove i libri di Daphne hanno avuto una storia editoriale disastrosamente pressapochista, tutta tagli, cesure e traduzioni sommarie, arriva Manderley Forever, la biografia di una splendida Lucrezia Borgia che decise di scandalizzare il mondo con i suoi demoni.

C’è chi sostiene che l’infanzia delle persone (famose o no) sia tutto sommato un periodo insipido, ma quella di Daphne sembra già un intrigo degno della sua penna. Abbiamo un nonno avventuriero di origini francesi, un padre celeberrimo attore teatrale ossessionato dalla sensualità delle figlie, una madre splendida signora dell’alta società, baci notturni incestuosi, intrighi tra maschi di famiglia che si contendono le attenzioni di Daphne, un’amicizia stretta con il creatore di Peter Pan, J. M. Barrie.

Poi arrivano le inquietudini adolescenziali, ambientate in uno splendido collegio per signorine in Francia, che culminano in un’intensa relazione con l’insegnante di francese, completa di virulenti attacchi di passione e di febbre. Come ogni personaggio di spicco delle arti inglesi dell’epoca, Daphne dimostra di avere una sessualità piuttosto fluida, pur avendo un rapporto pregiudiziale, quasi omofobo, con la parola che inizia per l.

Se è vero che il grande amore della sua vita sarà il marito, alto papavero dell’esercito a strettissimo contatto con la giovane regina Elisabetta II, è anche vero che le sue passioni più irresistibili e indimenticabili sono state tutte al femminile. Da questi amori violentissimi, a prescindere che fossero corrisposti o consumati, sono germogliate le sue opere migliori e le sue vestali; le ambigue, conturbanti e misteriose Rebecca e Rachele.

La bibliografia della Du Marier è però sterminata e passa dai racconti più macabri e sensazionalisti (dove si nascondono capolavori come Gli uccelli) a biografie anticonvenzionali e storicamente ineccepibili (quella dedicata al Patrick Branwell Brontë), fino ai thriller e ai mystery come Jamaica Inn, che le hanno garantito uno stile di vita quasi sempre plasmato dai suoi desideri più egoisti e bizzarri.

 

I due grandi amori della sua vita, più del marito, delle amanti, dei figli, dei cani e della navigazione, sono stati la scrittura e un gigantesco maniero, Menabilly. La grande villa da cui tentò con tutte le sue forze e il suo denaro di non staccarsi mai riecheggia nella sua opera più celebre, quella maledetta Rebecca a cui sembra così somigliare per fascino e volitività. Invece la sua produzione e la sua vita la costringono nel ruolo scomodo e vile della seconda moglie: la fama di Rebecca fu tale da mettere in ombra ogni suo altro scritto e da aggravare quell’atteggiamento di sufficienza con cui la critica prendeva in esame le opere truci e crudeli di una donna dell’alta società.

Daphne ha avuto tutto dalla vita, ma non ha esitato a metterlo da parte per la sua scrittura, fino a diventare un’amica egoista, una figlia e una sorella insensibile, una moglie distratta e distante, una madre assente, totalmente dimentica delle figlie in favore dell’unico, adoratissimo maschio.

Nell’ultimo decennio della sua vita si è spenta con l’affievolirsi della sua scintilla creativa, prostrata da un’esistenza che le ha presentato un bilancio positivo ma intaccato da tante piccole amarezze e alcuni terribili lutti: il distacco definitivo dal marito, diventato l’ombra di se stesso, e dall’amata Menabilly.

Daphne ha avuto tutto ciò che desiderava dalla vita e non si è mai posta limiti a viverla come desiderava, infischiandosene delle convenzioni sociali e talvolta dei sentimenti delle persone a lei più vicine. Forse a mancarle dopo la morte è quell’aurea mitologica che circonda le vite ben più ordinarie delle altre grandi donne della storia letteraria inglese: Charlotte, Emily, Anne, Virginia, Jane. Imprigionata in una vita splendida e grandiosa come un romanzo, la mastodontica Daphne è rimasta ostaggio di Rebecca e Rachele, aggirandosi come un fantasma tra le stanze delle sue Manderley, in attesa di una liberazione che tarda ad arrivare.

Beat Edizioni ha di recente ripubblicato Jamaica Inn, con traduzione di M. Vaggi.
Nel 2017 arriverà nelle sale un nuovo adattamento cinematografico di Mia Cugina Rachele.



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