Con un’illustrazione di Tim McDonagh e un titolo che professa una studiata dichiarazione di modestia – perché questo è un “tentativo prematuro”, badate bene – Vulture.com ha messo a segno uno splendido colpo giornalistico, dimostrando tempismo perfetto e un coraggio che sfocia nell’autorevolezza.

Firmata collettivamente dai redattori della costola online del New York Magazine che divora cultura (alta e bassa) sin dal suo motto, con tanto di sigillo di qualità di Michiko Kakutani e Luc Sante, la lista dei 100 romanzi che dovrebbero definire il canone letterario del 21esimo secolo ha fatto centro, espandendosi a macchia d’olio online e sulla carta stampa, generando commenti, dibattito e critiche.

Si può tentare di costruire un canone a 18 anni dall’inizio del secolo in questione? Secondo Vulture.com sì, se il periodo storico in questione si apre con l’attacco alle Torri Gemelle e si chiude con l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. La testata coglie nel segno in campo letterario, dettando quel cambio di passo e prospettiva di cui ci sarebbe disperatamente bisogno anche sul versante politico e sociale.

È ora di darsi una mossa e di smettere di guardare instupiditi un presente che ha messo da tempo di seguire la strada tracciata dalle passate migliori intenzioni, deviando verso territori oscuri e ignoti, inimmaginabili fino a qualche tempo fa.

Nell’immobilismo attonito con cui anche il mondo culturale sembra incapace di porsi le domande giuste e stimolare risposte nuove a problemi pressanti, fare ordine nell’ultimo ventennio letterario significa ripercorrere la cronaca culturale di quanto accaduto, nel tentativo di capirne davvero le cause e perché no, fare il punto sulle proprie colpe.

Lo smarrimento è soprattutto delle generazioni che il mondo con le Torri Gemelle ancora in piedi lo ricordano bene, così come cristallizzato da Jonathan Franzen in Le Correzioni, approdato in libreria solo 10 giorni prima quella fatale mattina newyorkese. Dopo solo un ventennio è un punto di partenza già irrinunciabile, o forse il segno ortografico che chiude il lunghissimo capitolo scritto nel Novecento. Un secolo letterario e storico che nelle sue battute finali suggeriva nuove sfide, nuovi orizzonti, ma anche un senso precario di lieto fine.

Tutto poi è crollato: le Torri, la Borsa, l’economia mondiale, l’assunto che il Capitalismo sia il male minore, che la Democrazia sia irreversibile, che il Pianeta possa sopravvivere a lungo. Se il romanzo che incarni l’era trumpiana è – per ragioni strettamente cronologiche – ancora di là da venire (o forse, chissà, già in incubazione in qualche cassetto o hard disk), non mancano titoli che questo bizzarro ventennio lo stanno già indagando. Nella speranza che presto venga smentita questa crescente impressione di stare di fronte a un remake tecnologico e rated R del peggio affrontato nel secolo precedente.

Non esiste listone o canone letterario che, per sua stessa natura, non comprenda esclusioni clamorose o inclusioni discutibili. La mossa ardita di Vulture ha alle spalle una solido e strutturato lavoro di compilazione, che viene spiegato approfonditamente nelle premesse dell’articolo: in cima il titolo con più preferenze (forse la vera sorpresa del pezzo), a seguire “i nuovi classici” che hanno fatto incetta di voti, poi un canone alto di romanzi con almeno due preferenze e infine i titoli più deboli, quelli scelti da un solo compilatore.

Qualche riflessione e critica costruttiva però la genera, anche solo dopo una rapida scorsa, anche dal sempre più periferico paese di santi, marinai e scrittori: sia di natura strutturale e generale, sia di carattere particolare. Con persino qualche spunto di sana autocritica.

Anglocentrismo

Più che una critica in sé alla lista di Vulture, questa è un’osservazione che si può fare a ogni sforzo di classificazione e canonizzazione culturale provenga da una nazione che considera “straniero” e “di nicchia” ogni film o libro non prodotto entro i propri confini e nella propria lingua. Lo strapotere della letteratura in lingua inglese (in primis statunitense) in un canone che dovrebbe essere mondiale per definizione suscita più di qualche perplessità. Possiamo davvero essere d’accordo con una lista che sovrappone quasi perfettamente la produzione mondiale con quella in lingua anglofona, cancellando totalmente o quasi mercati e culture sterminate come quelle asiatiche, africane e sudamericane?

Emerge quindi un problema sistemico del florido mercato editoriale americano e inglese, speculare a quello che si registra in campo filmico e televisivo. Si legge poco o pochissimo in traduzione. Quando si parla di “voci altre” (soprattutto per quanto riguarda il continente africano e il Medioriente) si guarda sempre a scrittori espatriati, emigrati in Occidente, naturalizzati, che magari usano come prima lingua proprio l’inglese. Ngũgĩ wa Thiong’o può bastare a rappresentare lo sterminato continente africano? Quasi a scusarsi, ecco comparire nel trafiletto dedicato anche i nomi di Chinua Achebe e Wole Soyinka. Come, Chimamanda Ngozi Adichie non era già consacrata, con tanto di sigillo di garanzia di Beyoncé?

Un discorso simile si può fare anche guardando a Oriente: l’irrinunciabile Haruki Murakami tanto imprescindibile non è, dato che raccoglie una sola preferenza. Vivek Shanbhag porta da solo il peso della letteratura indiana scritta in idiomi diversi dall’inglese. Akhil Sharma, Viet Thanh Nguyen e tanti altri sono passati attraverso la naturalizzazione statunitense (e la lingua inglese) per rientrare nel canone, per giunta nella parte bassa.

Il nome più autorevole proveniente dal Sud America è quello di Roberto Bolaño, scrittore cileno morto nel 2003, inserito con un’opera postuma, giusto per dare un’idea di quanto questa classifica tenga il polso dello scenario attuale.

Voci dalla vecchia Europa

Un riflessione simile si può fare anche per quanto riguarda la letteratura europea e le firme che la rappresentano. Scorrendo la parte alta della classifica – quella del high canon, con i titoli che hanno ottenuto più voti e quindi più consenso – lo scenario rimane abbastanza desolante. Michel Houellebecq e Emmanuel Carrère per la Francia, Karl Ove Knausgaard per la Norvegia, Svetlana Alexievich per l’Ucraina, Elena Ferrante per l’Italia. Se ne ricava l’impressione che una grossa fetta d’Europa continentale e mediterranea non scriva abbastanza (o abbastanza bene) per ambire a descrivere il Nuovo Secolo. Vogliamo veramente credere in questa irrilevanza letteraria di Germania, Spagna e Grecia? All’indomani della pubblicazione della lista, le voci più informate (e sdegnate) si chiedevano in particolare dove fossero finite Ungheria, Romania e tutto l’ex blocco sovietico, che di campioni letterari recenti ne hanno parecchi, vedi alle voci Cărtărescu e Krasznahorkai.

A giudicare dalla lista di Vulture.com, pare proprio che servano opinioni forti, controverse ed egocentriche il giusto per colpire l’immaginario statunitense e collettivo. Tranquilli, su Ferrante poi ci torniamo.

Ibrido di genere

Se i primi due punti possono essere più generali e sistemici, il come e quanto la letteratura di genere entri in questa classifica suscita parecchie perplessità. Soprattutto perché secondo i redattori della stessa, è so fully saturated with what we once called “genre fiction” da essere inattaccabile su questo fronte. Peccato che quella che una volta si chiamava (e viene ancora stigmatizzata in quanto) letteratura di genere qui compaia nei recessi della classifica. Il primo, vero – e unico – romanzo di fantascienza lo trovate dopo esservi atrofizzati l’indice a furia di scorrere la lista: The Fifth Season di N. K. Jemisin. E La Strada? E Quel che resta del giorno?

A trionfare in questa lista è semmai la narrativa ibridata con elementi di genere, appena colorata da tocchi di fantascienza, fantastico, horror e via dicendo. O meglio ancora, i romanzi redatti da uno scrittore di comprovata auctoritas che si concede l’esperimento di genere, vedi Kazuo Ishiguro e Cormac McCarthy. D’altronde per rendere più rispettabili (e commercializzabili) scrittori di genere veri e propri come Kurt Vonnegut e Margaret Atwood si è talmente insistito su etichette alternative come speculative fiction e sulla dicotomia tra distopia e fantascienza in sé e per sé che ormai il lettore sfoglia tranquillamente Il racconto dell’ancella, sicuro di non entrare in contatto con l’inquietante blob di pregiudizi nebulosi che circondano la genre fiction. Unica eccezione concepita e ammessa: Harry Potter e Queste Oscure Materie, con la scusante della (supposta) destinazione primaria per il pubblico dei più giovani, che il genere se lo possono ancora permettere. Il che la dice lunga su quanto fantascienza, fantasy & co. vengano ancora percepiti come letture puerili, prive si spessore.

Di fatto la letteratura di genere vera e propria rimane un territorio inesplorato – dal canone di Vulture, dalla critica e dal lettore comune – ricchissimo di romanzi che spesso sono letterariamente più riusciti delle forme ibridate con cui il genere viene identificato. Sì, se state leggendo una distopia state leggendo della fantascienza; magari sarebbe il caso di provare a saggiare anche quella creata da chi non si nasconde dietro un’etichetta di comodo.

Inoltre non dovrebbe stupire il fatto che chi la fantascienza la scrive (e la legge) da decenni possa ottenere un risultato migliore – ancorché meno popolare – di chi per sfizio tenta questa strada una volta o due in carriera. Scrittori come Ian McDonald, Kim Stanley Robinson, Neal Stephenson, Susanna Clarke, Neil Gaiman, China Miéville e Stephen King (giusto per buttar lì una manciata di nomi così famosi da essere banali, tradotti a livello mondiale e critically acclaimed) a quanto pare sono eminenti solo quando si rimane nei confini del genere; più vivo e ghettizzato che mai.

Per fare un esempio scevro di partigianeria: non sono una grande sostenitrice di American Gods, ma il resto del mondo sì. Il romanzo più premiato e amato di Neil Gaiman – che più americano-cententrico di così non si può – è stato pubblicato nel 2001.

Non va poi molto meglio per l’enorme comparto che spazia dal giallo al nero. Pur essendo una delle ancore di salvataggio dei fatturati della case editrici, quello del genere crime rimane comunque un ghetto. È una discriminazione più lussuosa rispetto a quella della zona SFF, perché il pubblico e la visibilità non mancano. Eppure quando si parla di Letteratura, sono pochissimi gli autori puri che riescono a farsi riconoscere anche dalla critica nelle occasioni che contano.
Guardando al canone di Vulture, nella parte alta della classifica è ancora una volta una donna a salvare un intero genere dell’irrilevanza: Gillian Flynn, l’autrice di Sharp Objects e Gone Girl. Viene da chiedersi se il suo solidissimo status di game changer sarebbe stato riconosciuto senza il viatico fincheriano del film con Ben Affleck.

Nota a margine per le considerazioni fatte finora bisogna poi evidenziare quanto sia la parte più traballante del canone (quella dei libri con una sola preferenza) a garantire una presentabilità di facciata alla classifica di Vulture.com. La biodiversità geografica, linguistica e di genere della classifica subisce un colpo mortale non appena si considera solo la parte alta, ovvero quella più solida e ragionata.

Se la lista di Vulture.com può fregiarsi di essere aperto alla narrativa di genere, alle voci di altri continenti e ai titoli in traduzione, è in larga parte merito del “canone basso”. Quello in cui è plausibile sospettare qualche ritocchino ragionato per confezionare un risultato finale sufficientemente variegato e rappresentativo. Resta il fatto che il consenso più forte si concentra su un gruppo di titoli dall’omogeneità geografica e culturale sconcertante, in cui persino gli autori inglesi e canadese (comunque anglofoni) diventano una mezza rarità. Una considerazione da tenere a mente nell’approcciare l’eccezionalità del risultato preso in esame nell’ultimo punto di questa analisi.

C’è anche un po’ d’Italia

Elena Ferrante continua ad essere lo splendido paradosso che agita silenziosamente lo scenario letterario italiano. La sua inclusione nei piani alti della classifica (5 preferenze a fronte del romanzo più amato che ne ricevute 7) può stupire solo chi non perfora la cortina di astioso silenzio che ancora oggi circonda la penna italiana più tradotta, conosciuta, amata e criticamente apprezzata al mondo. Sono passati anni (anni!) da quando il successo travolgente della quadrilogia napoletana di Elena Ferrante poteva venire derubricato come una questione meramente commerciale, capace di avvincere giusto il pubblico di casalinghe sospiranti di ogni latitudine e longitudine. Nel frattempo Elena Ferrante ha una rubrica stabile su The Guardian ed è stata elogiata da ogni testata giornalistica, critico letterario e artista statunitense sia considerato cool qui da noi. Da Jonathan Franzen a Michiko Kakutani, passando per ogni politico, presentatore, attore, influencer o figura pubblica degna di nota non ce n’è uno che non abbia letto e amato la Quadrilogia. Nella nostra perenne sudditanza culturale, pendiamo dalle labbra di questi eminenti statunitensi di riferimento. Tranne quando si tratta di Elena Ferrante.

L’amica geniale – insieme a Le Correzioni e pochi altri – è il titolo imprescindibile di questo canone, un classico già conclamato, l’opera che comincia a profumare di toto Nobel, per quanto questa affermazione faccia venire i travasi di bile all’intellighenzia italiana. Che l’animosità contro la scrittrice senza volto più famosa al mondo (al mondo) sia ancora viva e vegeta nel Bel Paese lo testimonia il silenzio assordante che ha circondato questo importante risultato.
Della classifica si è parlato tantissimo, anche sui mezzi d’informazione e sui social letterari italiani, ma senza mai citare il nome grazie a cui la nostra penisola non è stata cancellata dal mondo letterario contemporaneo.

Questo succede in Italia, dove le pratiche di giornalismo vigenti e un cronico bisogno di essere rassicurati da fuori circa la nostra rilevanza internazionale fanno partire la grancassa ad ogni minimo c’è anche un po’ d’Italia. Chiudete gli occhi un istante e provate a immaginare cosa sarebbe successo se in fondo classifica fosse apparso un Domenico Starnone, un Paolo Cognetti o uno dei tanti scrittori che devono rendere grazie proprio al successo della Ferrante per questa rinnovata curiosità nei confronti della letteratura italiana negli Stati Uniti. Il tutto sarebbe stato di certo assordante, ma non silenzioso.

Alla vigilia della trasmissione dell’attesissima serie TV tratta dalla quadrilogia di Elena Ferrante non è che sia giunta l’ora. Siamo già fuori tempo massimo per accettare e interiorizzare la rilevanza che quest’opera ha acquisito in via definitiva, a livello internazionale. O qualcuno pensa davvero che questo fiorire di traduzioni, ristampe e pubblicazioni italiane negli Stati Uniti dipenda da altri fattori, estranei alla ricerca di un erede (o epigono) di Elena Ferrante?



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