Lorenzo Pavolini – qualora ci fosse bisogno di ribadirlo – è uno scrittore vero.
La conferma viene dal suo ultimo libro – Tre fratelli magri, uscito per i tipi della casa editrice Fandango – in cui pennella con delicatezza e profondità le inquietudini che percorrono i membri di una normale famiglia della borghesia romana.
Pavolini è uno di quegli autori che utilizzano la scrittura per dare un senso alla propria esperienza. Non ha bisogno di inventare imprese mirabolanti o avventure fantasmagoriche. Scava nel passato, negli oggetti custoditi gelosamente per anni nelle memorie familiari. Mette in ordine gli avvenimenti, i pensieri e i desideri – mano mano che evidentemente gli si accavallano tumultuosi nell’anima – per trovare un filo logico che li colleghi e lo accompagni a una via d’uscita soddisfacente. Raccontabile, e quindi condivisibile con il lettore.
“Lo sforzo che l’uomo compie per dare un senso alla propria vita è teatro,” diceva Eduardo. E non è un caso che una delle passioni dichiarate e praticate da Lorenzo Pavolini sia proprio il teatro. Che, peraltro, in questo libro non è minimamente presente, se non in un fugace accenno, quasi un atto di scusa – di consapevolezza della propria condizione di spettatore intellettuale delle vicende del mondo – nei confronti delle vite, percepite come molto più interessanti, degli altri due protagonisti del libro. Maestro di sci di fede musulmana, uno, sulle Alpi; velista tra Oceano Indiano e Pacifico, l’altro.
L’opera precedente di Lorenzo Pavolini, Accanto alla tigre, era stata scritta per fare finalmente i conti con l’ingombrante figura del nonno Alessandro, simbolo del fascismo irriducibile, rimosso dalla storia familiare con uno dei facili colpi di spugna cui le memorie degli italiani sono particolarmente avvezze. In questo Tre fratelli magri, invece, si avvicina ancora di più al nocciolo intricato dei rapporti familiari e – utilizzando come appiglio narrativo il ricordo nebuloso di uno zio scomparso in un incidente alpinistico – cerca di riannodare i fili delle esistenze di questi tre fratelli che – passato il periodo dell’infanzia – hanno preso strade quanto mai diverse e divergenti.
Tre fratelli magri è un libro che avvince. Ti porta su vette innevate o a fare tuffi in oceano aperto, con la naturalezza rassicurante della quotidianità. Viene – a volte, mentre lo leggi – la tentazione di chiederti dove finisca la realtà e dove inizi l’invenzione. È il segno più tangibile dell’efficacia di questa narrazione così autobiografica. Possibile che Lorenzo – ed è significativo che il nome della voce narrante non venga mai fatto nel corso del testo, ne veniamo a conoscenza solo leggendo il risvolto di copertina – Pavolini sia effettivamente incappato in tutto quello che racconta? È, ovviamente, un falso problema. Come chiedersi – leggendo Moby Dick – se Ismaele abbia o meno partecipato alla lotta contro la grande balena bianca. D’altronde noi lettori conosciamo bene quella sensazione straniante di essere immersi per centosessanta pagine in una finzione assolutamente vera e credibile.
Lorenzo ci racconta – ci fa vivere – il suo tentativo di riallacciare i rapporti – di ricomporli come erano prima, anche se solo per un momento – con i fratelli Marco ed Emanuele. Per tutto il libro cerca di creare un momento di ricongiunzione tra i tre per ricostruire l’unità perduta dell’infanzia e della pre-adolescenza. E alla fine si rende conto che riportare alla vita il passato è impossibile. Che l’unico successo verosimile e perseguibile è quello di provare a ricordare quei momenti in cui quei percorsi – da uniti e intrecciati che erano – iniziano a dipanarsi secondo tracce impreviste e imperscrutabili.
Tracce che, alla fine del romanzo, lo porteranno lì dove tutto era iniziato. Nella casa di montagna battuta dalle raffiche di vento in cui da bambini i tre fratelli magri si addormentavano tranquillizzandosi a vicenda. Torna lì, Lorenzo, da solo – e ci si addormenta ancora una volta – finalmente placato e rassicurato.
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