Nel 2008 un film straordinario invade di buio sconvolgente e shock onirico gli sguardi dei cinefili e delle cinefile di tutto il mondo: Valzer con Bashir di Ari Folman è un viaggio nell’inconscio straziato di un paese, è la narrazione distrutta di una ferita nella Storia (l’eccidio di Sabra e Shatila), è, soprattutto, una ricognizione nelle memorie frammentate di un uomo. Il regista affonda la cinepresa in un passato che lo riguarda, che è intimo, personale, annegato di sangue e orrore, e lo rende rappresentabile sotto forma di visione allucinogena, straziante e straziata, immaginifica, lisergica, dolente e soprattutto disperatamente poetica.

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Un film folgorazione, ma anche un’opera prima che pare unica, ‘ultima’ e irripetibile per un filmmaker che alza un grido di dolore, di catarsi e di ricerca di espiazione: un lavoro esistenziale che sembra, già di suo, la chiusura di un cerchio. Invece, 5 anni dopo quel tour de force filmico e psicologico Folman torna dietro la macchina da presa (oltre che nuovamente in sede di sceneggiatura) con una pellicola tratta da un romanzo di Stanisław Lem, e che riguarda, di nuovo, la coscienza, il perdere se stessi, la disorganicità e la dissoluzione di un possibile futuro forse già sfregiato.

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Un film sul cinema, un film che più (meta)cinematografico non si può: mattatrice Robin Wright, nel ruolo di se stessa (e… oltre), insieme ad altri colleghi illustri (il sublime Harvey Keitel e Danny Huston) nei panni di addetti al lavoro di un’industria feroce e predatrice, quella naturalmente di una casa cinematografica hollywoodiana, la Miramount (ovvia crasi tra le grosse Miramax e Paramount), che insidia un’attrice al tramonto (quantomeno, è quello che loro le ripetono a volontà e senza sconti) cercando di convincerla a vendere il suo corpo, o meglio la sua immagine, per essere trasformata in un avatar più giovane che continuerà a recitare al suo posto in ogni sorta di film, da lì a tempo indeterminato.

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Questo l’input di The Congress, opera seconda la quale snoda una prima parte incentrata sulle perplessità e i dubbi della Wright su quanto di lecito e quanto di irrispettoso e inumano ci sia nella possibilità di darsi totalmente alla virtualità forzata, al ridursi a burattino nelle mani di potenze che già hanno dimostrato di valutarla sotto zero – causticissime e crudelmente vere (soprattutto perché rivolte a una donna, materia primariamente masticabile dentro il mondo del cinema) in questo senso le frecciate di Keitel e Huston verso un’attrice che anche nella realtà, pur non a tali livelli e soprattutto non più, è spesso stata sottovalutata e depotenziata.

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La prima ora prosegue lungo questa linea per poi deflagrare nel momento più potente dell’opera, un confronto dentro/fuori una gabbia luminosa che ruba le emozioni che esplodono sul volto di Robin, mentre il suo agente, fuori dalla struttura, le parla a cuore aperto e al tempo stesso, per l’ennesima volta, più di tutte le altre volte, sfrutta la sua vulnerabilità. Dopo questo culmine impeccabile di regia, scrittura e recitazione, ecco che The Congress vira improvvisamente, bruscamente, in un altro film. Fosse stato diviso in due parti, in stile Kill Bill per intenderci (!), l’effetto non sarebbe stato meno spiazzante. Passano 20 anni, e dal futuro imprecisato e distopico dell’inizio, di cui pure avevamo visto ben poco (qualche interno, una strana cura per il figlio malato di Robin), si viene trascinati in un mondo completamente diverso, a partire dalla tecnica di messinscena: giù una fiala – sorta di alternativa alla pillola di Matrix.

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L’universo di The Congress appare infatti quasi come una matrice rovesciata – ed ecco la virata nell’animazione, un’animazione che, similmente a Valzer con Bashir (benché con moventi opposti), è un trip allucinogeno, visionario, strafatto, inquietante. Le tematiche della tecnologia virale, delle vite alternative, dell’essere umano alla fine del mondo fisico, dello sfruttamento dell’immagine, si fondono nel debordante flusso ipnotico e impazzito del cartoon, che dopotutto, nel suo essere massimamente irreale, virtuale, impalpabile, è il mezzo più adatto a riflettere il crollo dell’umanità intera in una dimensione parallela nonsense resa possibile dallo sviluppo tecnologico, che in The Congress si accompagna però alla perdita di qualsiasi senso di realtà, limite, legame, certezza. La perdita più totale dell’Io.

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I continui sbalzi, le visioni impazzite, gli incubi e i sogni e i miraggi di Robin nella seconda parte del film incrementano la sensazione di spaesamento affascinante e pauroso, ignoto e confuso, che suscitano le proiezioni drogate e sfinite degli innumerevoli avatar mutaforma, in una parata freak e sconcertante che sfoggia, tra gli altri, camei liquidi di Michael Jackson, Frida Kahlo, Cleopatra, Clint Eastwood, Tom Cruise, David Bowie, divinità greche e romane e chissà quanti altri, nel turbinoso amalgama senza meta e senza senso di un digitale che ha preso il sopravvento.

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Folman punta altissimo, cita 2001: Odissea nello spazio e (letteralmente) il Dottor Stranamore, riuscendo a farci nuotare e allo stesso tempo a incatenarci in un universo futuristico tanto fittizio quanto familiare, che diventa mano a mano sempre più filosoficheggiante e, c’è da dire, pretenzioso. Perché gli spunti, le riflessioni, le idee, le avvisaglie e i moniti sono tanti, forse troppi, e si disperdono tra frasi ad effetto (volutamente?) oscure e libranti scene di volo e di sesso e di amore che si fondono e si confondono.

È un rompicapo slabbrato, un oggetto imperfetto, mutevole e stordente, offuscato e incasinato, imprendibile ed esagerato, questo The Congress, ma nella sua ostica, testarda, forse fallimentare ambizione è in grado di regalarci alcuni degli squarci più affascinanti, cupi e vibranti di questa stagione cinematografica.



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