Le radici di Guardiani della Galassia – una scommessa produttiva ancor più audace degli Avengers, in termini di rischi commerciali – non risalgono soltanto al restyling fumettistico operato da Dan Abnett e Andy Lenning nel 2008, o al vasto panorama cosmico dell’universo Marvel, ma anche a quell’estroso immaginario fantascientifico che unisce space opera e space western, con influenze visivo-narrative che attingono al pulp di Buck Rogers e Flash Gordon, o alle rielaborazioni post-moderne di Guerre stellari e Firefly. Di fatto, l’origine del progetto è rintracciabile in un sentimento di nostalgia che, ben lungi dal diventare stucchevole, lamenta la “perdita dell’innocenza” di una Hollywood sempre più orientata a prendersi troppo sul serio nell’approccio ai blockbuster, sottoposti a un processo di razionalizzazione e inaridimento («We wanted to be more grounded» è l’attuale mantra di produttori, registi e sceneggiatori) che sembra eludere ogni forma di ingenuità, di stupore, di gioia fanciullesca davanti all’incredibile, al meraviglioso e all’ignoto.

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Uno stupore che, invece, James Gunn restaura dalle fondamenta: affiora negli occhi di Peter Quill/Star-Lord mentre la sua astronave si avvicina a Knowhere, la stazione mineraria costruita all’interno del cranio di un Celestiale, ed emerge dalla caratterizzazione irresistibile di Groot e Rocket Raccoon, folli personaggi che ricalcano l’antropomorfismo dei cartoon, ma con tutto il sarcasmo e le doti guerresche delle avventure spaziali. Gunn, abile ad appropriarsi del film come fece Joss Whedon con The Avengers, ne ha plasmato lo spirito sull’anima multiforme del suo talento creativo, diviso tra gioiellini caustici (Tromeo & Juliet, Slither, Super, PG-Porn) e prodotti di largo consumo (i due Scooby-Doo) che qui lasciano tracce di uguale spessore, pur salvaguardando l’intrattenimento per le grandi platee; ma, soprattutto, Gunn delinea i Guardiani come un branco di complessati e imprevedibili perdenti, che trovano redenzione nella solidarietà reciproca e nel riconoscimento delle rispettive mancanze.

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Questa evoluzione, che li trasforma da gruppo di sbandati a surrogato familiare, è descritta come un percorso di avvicinamento graduale, un itinerario che parte dallo scontro di caratteri, scivola poi nella collaborazione forzata, e infine sfocia in un’alleanza per proteggere la galassia dalla forza distruttiva di Ronan l’Accusatore, mentre l’ombra di Thanos – qui presente in un paio di scene con la voce originale di Josh Brolin – si allunga sul futuro dell’universo Marvel. In ogni caso, è la buona costruzione dei protagonisti ad agevolare il conflitto e la sua successiva risoluzione: ogni membro della squadra è infatti riconoscibile da un particolare atteggiamento (la guasconeria di Star-Lord), un modo di esprimersi (il linguaggio didascalico e pomposo di Drax), un tratto psicologico (l’orgoglio individualista di Gamora), una sfumatura caratteriale (il cinismo sarcastico di Rocket) o un’ambivalenza comportamentale (la dolcezza di Groot, pronta a mutarsi in furia sul campo di battaglia), e questi elementi riescono a suscitare un misto di simpatia e tenerezza, ilarità e immedesimazione. Soltanto Ronan, com’è già accaduto in passato ad altri cattivi dei Marvel Studios, risulta un po’ sacrificato nel suo ruolo di antagonista “puro”, avvelenato dall’odio e dal livore nei confronti di Xandar.

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In tal senso, nonostante la cifra dominante sia quella dell’ironia goliardica, il film riesce ad attraversare uno spettro emotivo piuttosto variegato. Dalla parodia di alcuni tipici cliché hollywoodiani, prontamente dileggiati in una prospettiva autoconsapevole, si passa ai fugaci lampi intimisti che popolano sia l’incipit sia l’epilogo del film, dove il sentiero formativo di Peter Quill trova compimento in una traiettoria circolare. La colonna sonora gioca un ruolo fondamentale, in questo contesto: l’ormai celebre compilation Awesome Mix Vol. 1 – l’audiocassetta che Peter ascolta di continuo, e che costituisce l’ossatura musicale di Guardiani della Galassia – è infatti un lascito di sua madre, un atto d’amore nostalgico ma gioioso che raccoglie tutte le sue canzoni preferite degli anni Settanta. Tra Blue Swede e Marvin Gaye, Jackson 5 e David Bowie, la musica sortisce un effetto di piacevole straniamento, rendendo più familiari le atmosfere extraterrestri (anzi, extragalattiche) e avvolgendole in un clima di citazionismo pop, cui contribuiscono anche i riferimenti cinematografici di Peter; memorabile, ad esempio, l’esposizione della trama di Footloose come fosse un’antica leggenda terrestre, con Kevin Bacon nelle vesti del grande eroe mitologico. D’altra parte, Star-Lord è pur sempre un ragazzo degli anni Ottanta, e Guardiani della Galassia fagocita l’immaginario dell’attuale generazione di trentenni per poi restituirlo con piglio autoironico e scanzonato, senza mai risultare morboso o feticista.

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Per il resto, sembra quasi scontato rimarcare la spettacolarità dell’azione, il respiro epico delle sequenze più imponenti (l’avvicinamento a Knowhere, la battaglia sui cieli di Xandar), le notevoli qualità tecniche nel design concettuale e nelle animazioni in CGI (Groot e Rocket sono impressionanti) o la ricchezza di camei e easter egg che affollano molte inquadrature, soprattutto nel museo del Collezionista; il tutto accompagnato da dialoghi brillanti e da gag coreografate magistralmente, come nella fuga dalla prigione di Kyln. Così, James Gunn e i suoi Guardiani della Galassia vincono la scommessa più rischiosa dei Marvel Studios, e lo fanno alla grande: un amalgama di avventura, umorismo e meraviglia che sfocia nel blockbuster più divertente dell’anno. Fin oltre i titoli di coda.



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