Per i cinefili di vecchia data e i passionisti dei pastiche più azzardati è uscito nelle sale statunitensi – e si spera presto anche da noi – un progetto intrigante che vede combinare un cast d’eccezione (Kurt Russell, Patrick Wilson, Richard Jenkins, Matthew Fox, David Arquette e Sid Haig), due generi cinematografici che, congiunti, hanno conosciuto (purtroppo) sporadiche sperimentazioni (il western e l’horror) e un talentuoso autore musicista esperto in fotografia. No, non si tratta del nuovo film di John Carpenter, anche se gli indizi potrebbero suggerire il contrario, ma dell’esordio alla regia di S. Craig Zahler intitolato Bone Tomahawk (2015). Se, sulla carta, le soluzioni narrative adottate da Zahler sembrerebbero avere in comune più di una somiglianza con l’opera di Carpenter, nella pratica è evidente che il film persegue aspirazioni e obiettivi differenti.

BONE TOMAHAWK

Gli interpreti, prima di tutto, sembrano quasi totalmente spogliati della loro “divisa di genere” e riconsegnati a un universo credibile, misurato, quotidiano – a esclusione di Mattew Fox che, per sua colpa, non riesce a calibrare il ruolo, assumendo atteggiamenti caricaturali – restando ben distanti dalla stilizzata e beffarda mise en scene carpenteriana. Non solo, anche i generi di riferimento assumono priorità e profili diversi all’interno del tessuto narrativo, tant’è che in Bone Tomahawk sono le “ragioni” dell’horror a piegarsi a quelle del western e non viceversa come avviene, ad esempio, in Distretto 13 – Le brigate della morte, o Vampires. Eppure, a prescindere dalla predominanza del western, che a partire dal tempo e dallo spazio di ambientazione fino all’allestimento delle gag definisce l’estetica tutta del film, etichettare univocamente Bone Tomahawk sarebbe un errore, o quantomeno una leggerezza.

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Certo, ci sono i cowboy, le sparatorie, i cavalli, il deserto, e pure gli indiani, tuttavia mancano i temi portanti del western, quelli sui quali edificare le lotte, le sfide, le rappresaglie, la vita, la morte, e fondare, attraverso di esse, una teleologia della storia. Se è vero che c’è un viaggio, una ricerca lungo i sentieri selvaggi del vecchio West, è altrettanto vero che quel percorso è piuttosto involuto, frammentato e oscuro, indirizzato appunto verso i territori dell’orrore, in cui la salvezza – se c’è – è tutt’altro che costitutiva. Contrariamente l’accento pare posto sui fenomeni di rottura e sulla devianza, come nell’horror.

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A dosare i due generi narrativi interviene, infine, un particolare approccio che, in maniera fluida ed efficace, riesce a mantenere insieme il clima avventuroso del western e la suspense dell’horror. Si tratta di un’esposizione della storia di tipo letterario (non a caso Zahler è, prima che un regista, un romanziere) tendente a privilegiare i dialoghi e le descrizioni – alla relativa staticità della macchina da presa si controbilancia con un uso contrastato ed espressivo della fotografia. Il risultato è un film d’atmosfera molto seducente, che convince per la sua sapiente organizzazione delle ambiguità, in cui il male si manifesta come sgradita intromissione, di cui l’uomo, in un modo o nell’altro, è sempre complice. Alla fine, che lo si richiami in una baita nel bosco o in una cittadina del vecchio West poco importa, basta andare a stanarlo con un arma a caso e lo spirito giusto…



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