Wild assomiglia al suo incipit, uno strappo in medias res che brutalmente ne riassume l’ardente e ardita essenza. Prima di tutto viene un ansimo, che brancola nel vuoto della natura selvaggia, che arriva prima del corpo, della figura della protagonista, come se fosse diventata unicamente il respiro della sopravvivenza, come se si fosse interamente incarnata nell’ansimare della fatica. Poi Cheryl Strayed (come “stray”, “randagia”) si siede per un attimo, i piedi sanguinano, una scarpa cade e precipita nel vuoto, e lei, con uno slancio rabbioso ed esasperato, lancia via anche l’altra: per restare scalza, nuda, urla e butta fuori da sé tutto l’ingombro sporco pesante che si porta addosso più gravoso del carico sulle spalle, lo emette per poterlo guardare in faccia.

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Immergendosi in un’espiazione furente verso/contro/per se stessa, Cheryl si pone davanti ostici e ruvidi ostacoli fisici per provare a se stessa che può valicarli, andare avanti per dimostrare di essere viva, in un viaggio (attraverso il Pacific Crest Trail) che parte come una penitenza e finisce per essere un’accettazione liberatoria. Scorrendo tra gente incrociata a tratti, da un giornalista che la crede una barbona (perché “è impossibile pensare che le donne diano un taglio netto alla loro esistenza”) a una vedova.

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Wild – il più bel film di Jean-Marc Vallée insieme a Café de flore e C.R.A.Z.Y., con una finalmente intensa Reese Witherspoon e la tagliente sceneggiatura di Nick Hornby – si allontana dalla freddezza di Tracks – Attraverso il deserto e dal lirismo di Into the Wild, sfoglia la vita vera fra un pensiero sovrimpresso e l’altro.

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Dopo la prematura morte dell’amata madre (con la quale aveva un rapporto conflittuale, perché la donna aveva faticato a lasciare il marito violento, padre di Cheryl), dopo un matrimonio fallito (con un uomo che adorava), dopo un circolo vizioso di droga e sesso casuale che è mera via per l’autodistruzione e per trovare un surrogato al dolore e al poco amore che le è rimasto e che non ritiene di meritare, sopraggiungono un aborto improvviso e il confronto con la sua migliore amica, e, infine, la spinta al reset.

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E così Cheryl riscrive la sua vita in mezzo alle sterpaglie anguste e graffianti di quello che è, visivamente e interiormente, un percorso avanti ma anche a ritroso in un passato che continua a infiltrarsi tra il silenzio delle montagne, tra i vaghi rumori del paesaggio, tra lo stormire degli uccelli e l’incombere della notte. Frammenti tempestosi, “temporali inconsolabili”, da nutrire e poi lasciar andare con la consapevolezza di una cicatrice a cui consegnarsi, come un tatuaggio che sancisce un addio.



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