Zhao Liang è nato nella provincia di Liaoning, nel nord-est della Cina. Definita il ‘Triangolo d’Oro’ per la sua posizione di collegamento tra il Mar Giallo, la penisola di Corea e la Mongolia interna, è stata una delle prime regioni cinesi ad essere fortemente industrializzate, con un ruolo preminente per l’industria metallurgica.

Raccontando la genesi dell’opera in occasione della sua visita durante la rassegna Venezia a Napoli, il regista ha ricordato come abbia trovato l’ispirazione «viaggiando attraverso il paese. Ho guidato da oriente ad occidente, raggiungendo il Fiume Giallo. Seguendolo fino ai confini con la Mongolia, mi sono imbattuto in una miniera a cielo aperto». Questa miniera è il punto di partenza e di arrivo del viaggio compiuto in Behemoth, documentario che affronta in maniera differente le tematiche sociali che hanno caratterizzato l’intera filmografia di Zhao Liang.

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Le parole della Divina Commedia accompagnano il piano-sequenza che delinea un paesaggio luciferino, in cui l’opera dell’uomo ha creato una spaccatura nella Natura: la stessa spaccatura che si riverberà in alcuni fotogrammi in cui l’immagine si spezza, si frammenta. Una frammentazione a cui seguirà un’insensata ed asettica ricostruzione, sottolineando l’essenza saturnina di un’economia che parimenti divora i suoi figli e sé stessa. Il movimento attraverso i tre stadi della frammentazione, ricreazione e costruzione ha un corrispettivo fisico, un cammino. Tale percorso si snoda dall’inferno rappresentato dalla miniera, caratterizzato dalle tenebre dove dominano «pianto e stridore di denti», attraverso il purgatorio dell’acciaieria e delle dimore dei lavoratori, in cui ci sono mostrati i segni dei morsi di Saturno, fino al paradiso asettico e vuoto, dominato da una delle città fantasma costruite dal governo della Repubblica Popolare Cinese ovunque sul territorio nazionale (ed anche in altri paesi). In ognuno di questi momenti la natura è stata sostituita da paesaggi alieni, lunari, che modificano sia il corpo che l’anima degli uomini che vi abitano e sembrano essere realizzazioni delle illustrazioni dell’Ade di Botticelli o Stradano.

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Il viaggio attraverso questi tre luoghi segue, idealmente, il testo della Commedia dantesca. Vi è però una forte differenza tra l’opera di Dante e Behemoth: l’assenza di Virgilio. Il poeta latino è sostituito da una figura misteriosa, uno specchio posto sulle spalle di un uomo. Zhao Liang non svela il motivo di questa scelta, ma crediamo possa trattarsi di un’unica metafora che dev’essere letta secondo la volontà dell’autore di ‘superare’ i limiti del canonico documentario cinematografico, realizzando un’opera che unisca performance e denuncia sociale. Alla luce di questo desiderio evidenziato dal tentativo di rendere il viaggio quanto più fisico possibile, come denoteremo più avanti, crediamo che la nuova guida suggerisca uno slittamento in cui Virgilio è sostituito dall’obiettivo della telecamera, mentre lo spettatore si trova a sostituire proprio il poeta fiorentino. Per questo motivo le citazioni della Commedia e alcune descrizioni, quasi delle didascalie all’immagine, sono sussurrate allo spettatore: è la guida che esplica i vari passaggi del panorama infernale. In tal senso non stupisce la scelta del regista di effettuare esclusivamente tre stacchi, posti alla conclusione del viaggio attraverso una delle tre aree principali. In questo caso, forse un richiamano delle amnesie e degli svenimenti che non consentivano a Dante di ricostruire precisamente i passaggi tra un girone e l’altro, lo schermo è invaso da un colore primario che, dissolvendosi lentamente, ci mostra la nostra nuova meta.

La crudele e dissonante realtà è racchiusa in un meccanismo in cui le tre fasi sono equipollenti e parimenti terribili: all’oscurità ed all’umidità dell’inferno minerario segue il calore dell’officina-purgatorio, per concludere il viaggio nella nuda solitudine del paradiso fantasma. La violenza delle immagini, esaltata da dirompenti colori e da momenti di caos alternati ad apparentemente calma, stride con la bellezza delle parole sussurrate dalla guida e narratore, dalla perfetta geometria dei panorami e dei tempi della pellicola. In più di un’occasione lo spettatore sarà rapito dalla pellicola e potrà sentirsi lì, nel cuore della Mongolia, alla scoperta del cuore di tenebra di un’economia-Saturno. Un viaggio irripetibile e dopo il quale sarà difficile non porsi qualche domanda sul nostro modo di consumare le merci, la natura, la nostra stessa vita. Perciò Behemoth è un capolavoro del genere documentaristico, un’opera che riesce a catturare ed identificare ciò che più si avvicina al male assoluto: un’economia che mira alla distruzione delle vite degli uomini e della Terra su cui essi vivono. Per dirla con le parole dell’autore: «il modo in cui il capitalismo sta cambiando il nostro mondo, dimenticandosi delle tradizioni culturali e dell’umanità. L’unico obiettivo è guadagnare denaro». Il film non è stato distribuito nella Repubblica Popolare Cinese e, al momento, non ha un distributore neanche nel nostro paese.

Ho visto Behemoth in occasione del festival Venezia a Napoli – Il cinema esteso che, ogni anno, porta nel capoluogo campano film ed autori ospiti della Mostra internazionale d’arte cinematografica.



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Dario Oropallo

Ho cominciato a leggere da bambino e, da allora, non ho mai smesso.

Anzi, sono diventato un appassionato anche di fumetti, videogiochi e cinema: tra i miei autori preferiti citerei M. Foucault, I. Calvino, S. Spielberg, T. Browning, Gipi, G. Delisle, M. Fior e S. Zizek.

Vivo a Napoli, studio filosofia e adoro scrivere. Inseguo il mio sogno: scrivere.

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