Provate a chiedere ad un italiano compreso tra i 30 e i 40 anni se conosce Tsubasa Oozora, Genzo Wakabayashi, Taro Misaki, Ryo Ishizaki, Kojiro Hiyuga, Jun Misugi o Hikaru Matsuyama: probabilmente riceverete un’occhiata interrogativa con annessa espressione spaesata. Ora fate la stessa domanda ma cambiando i nomi in Oliver “Holly” Hutton, Benjamin “Benji” Price, Tom Becker, Bruce Harper, Mark Lenders, Julian Ross e Philiph Callaghan. Probabilmente stavolta la reazione sarà un po’ diversa, del genere “Ma sì! Holly & Benji!” e contestualmente all’esclamazione partirà un pistolotto nostalgico su quanto fosse fico modificare la formazione giapponese di Perfect Eleven SNES con i nomi dei giocatori della saga.

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Il 2016 segna il 35esimo anniversario della nascita di Captain Tsubasa, una serie (prima manga, poi anime) che ha ottenuto subito un grande successo in madrepatria ed è universalmente riconosciuta come una delle più celebri serie sportive proveniente dal Sol Levante. In Italia, Holly & Benji sono ancora delle icone tant’è che appena qualche mese fa i personaggi principali sono stati scelti come testimonial di una celebre bibita e il quotidiano sportivo più venduto ha messo in vendita, con un ottimo riscontro, i dvd della prima, storica, serie animata.

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A fare i precisini Captain Tsubasa vede la sua nascita ufficiale nell’ancora più lontano 1980, quando il ventenne Yoichi Takahashi riusciva a farsi pubblicare sul Weekly Shounen Jump, la più celebre testata Shueisha, colosso dell’editoria nipponica, una breve storia che raccontava la sfida tra un portiere e un attaccante che erano pure innamorati della stessa ragazza. Fu grazie al successo di questo “prequel” che dall’anno successivo Takahashi potè iniziare a lavorare su Captain Tsubasa. L’autore però decise di fare tabula rasa del miniracconto e ripartire da zero: i personaggi sarebbero stati bambini delle elementari e la storia sarebbe iniziata col trasferimento in un nuova città del piccolo prodigio Tsubasa Oozora.

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La storia di Captain Tsubasa si è dipanata nell’arco di sette lustri, andando spesso a braccetto con le più importanti manifestazioni calcistiche internazionali (in particolare Campionati del mondo e Olimpiadi, che magari per un italiano contano poco, ma non certo per un giapponese, visto che il loro maggiore successo sportivo è proprio un terzo posto ai giochi del 1968 a Città del Messico) e mantenendo, al netto delle assurdità che avvenivano in campo, un particellare tasso di realismo, se non altro per quanto concerne l’invecchiamento dei protagonisti, che non restano bimbi per sempre.

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Captain Tsubasa in Giappone è un’istituzione e ha permesso al calcio di svilupparsi e ottenere la stessa dignità dei tre sport “nazionali” (sumo, wrestling e baseball) ma come spiegare l’incredibile successo anche in Paesi “calcisticamente” più evoluti? Forse con la sua semplicità: Tsubasa, sia nella versione manga che anime (con la seconda più edulcorata) è un valido esponente del genere spokon (i manga sportivi) ma a differenza di quasi tutti i suoi colleghi, non preme eccessivamente sul tasto dello slice of life tipico delle produzioni anni 80 (Touch/Prendi il mondo e vai, anch’esso 35enne) o della iperdrammatizzazione comune alle serie degli anni ’70 (Rocky Joe, Uomo Tigre o Arrivano i Superboys, giusto per restare in ambito calcistico). Si parla di calcio e solo di calcio: (quasi) tutto è semplice, immediato e codificabile in Tsubasa, a partire dal monodimensionale protagonista per arrivare ai dialoghi tra i personaggi, che si fanno portatori sani di valori classici e ben noti a chi segue “i cartoni animati giapponesi” fin da quando era bambino. D’altra parte, come non emozionarsi alle vicende del cardiopatico Ross, del rozzo ma in fondo buono Lenders e del suo fidato scudiero Mellow, dello stakanovista Callaghan, del perennemente infortunato Price e del giramondo Becker? Persino i “tiri assurdi” avevano il loro perchè: tutti hanno provato, almeno una volta nella vita, a replicare la Catapulta Infernale dei gemelli Derrick (molto spesso con esiti disastrosi…). Ingenuità, linearità, purezza, sportività: tutto quello che NON si vede oggi sui veri campi di calcio.

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Quanto all’Italia, elementi fondamentali per il successo della serie sono stati l’adattamento (ottima l’idea di far commentare le partite ad un vero telecronista, Sergio Matteucci, che doppiava anche le partite di Mila & Shiro, altro cult, stavolta solo italiano), la sigla (indimenticabile e una delle ultime a non subire il processo di cristinadavenizzazione) e il periodo storico in cui venne mandato in onda, al termine della golden age degli anime in tv. Tsubasa/Hutton non ha ancora appeso le scarpe al chiodo, anzi, è ancora in pieno svolgimento l’ennesimo arco narrativo della serie (Captain Tsubasa: Rising Sun) ed i personaggi sono ancora il punto di riferimento più immediato per tutti coloro che amano il calcio, per cui: buon compleanno Holly & Benji!



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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1 Comment

  1. il vero spokon iperdrammatizzato rimane “tommy la stella dei giants”…la macchina-tortura per gli allenamenti del protagonista da piccolo era un’idea che solo un giapponese poteva avere

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