Padre Ferreira, gesuita residente in Giappone per diffondere nel Paese la fede cristiana, scompare senza lasciare che una lettera, che giunge in Portogallo qualche anno dopo la sua misteriosa scomparsa. Due Padri portoghesi, allievi di Ferreira, decidono di intraprendere una pericolosa missione per ritrovare il loro mentore e continuare la sua opera di evangelizzazione…
Cinema e religione sono un binomio molto rischioso: è difficile riuscire a raccontare con uno spirito spurio da contaminazioni politico-ideologiche un fenomeno complesso come la fede o il culto. Infatti, durante la prima ora del suo Silence, adattamento cinematografico dal romanzo storico Silenzio dello scrittore giapponese Shūsaku Endō, che racconta le persecuzioni subite dai cristiani durante il periodo Tokugawa nella prima metà del XVII secolo in Giappone, nemmeno un titano della Settima Arte come Martin Scorsese riesce ad evitare di cadere nel manicheismo.
Sessanta interminabili minuti presentati con un certo imbarazzo, che paiono più opera di un artista ansioso di redimere i propri peccati e acquistare l’indulgenza che di un acuto osservatore delle cose del mondo, con i giapponesi ridotti a macchiette isteriche (sia pro che contro il cristianesimo e ovviamente l’atroce doppiaggio “giapponesizzato” non aiuta) e i due preti che stanno sempre dalla parte della ragione. Poi il film cambia drasticamente passo, ritmo, forma e sostanza, facendo pensare che quella prima ora sia stata solo un’esca, una trappola lanciata dal regista: la missione dei due padri si trasforma in una acuta analisi sul senso (o non-senso) della Fede.
Parlare di religione è sempre difficile. Silence, almeno nella sua seconda parte, la mostra per quel che è: uno strumento di salvezza o speranza per quelle persone che non hanno nulla da chiedere alla vita terrena, un mero strumento politico per coloro che la esercitano o che detengono posizioni di potere. La limpida schiettezza dei discorsi dell’Inquisitore nipponico (magistralmente interpretato da Issei Ogata) si contrappone alle fragili certezze di Padre Sebastião Rodrigues (un bravo, per quanto poco credibile, Andrew Garfield) che deve oltretutto sopportare lo smacco di vedere il suo vecchio mentore trasformato in apostata, più o meno convinto.
Grande pregio di Silence è quello di mostrare al distratto spettatore occidentale la crema della scuola attoriale nipponica: Nana Komatsu, Yoshi Oida, Issei Ogata, Yōsuke Kubozuka, Shinya Tsukamoto, Tadanobu Asano sono nomi notissimi agli appassionati di cultura giapponese ma sconosciuti a tutti gli altri: ben venga la possibilità di rendersi più riconoscibili.
Graziato da una messa in scena imponente e maestosa e da valori produttivi eccelsi, Silence non aggiunge né toglie nulla alla storia del cinema di Scorsese, né, a ben vedere, può fungere da riflessione utile per una platea di cattolici già “indottrinati”. Riesce invece a cogliere e a descrivere la diversità del Sol Levante, paese allora e tutt’oggi unico nel suo genere e non è cosa da poco. La storia ci racconta che effettivamente il Sol Levante è poi effettivamente rimasto sordo alla contaminazione religiosa cristiano-cattolica, per abbracciare il confucianesimo, credo più consono ad una società dotata di una fortissima coscienza civica, che deve restare compatta e coesa per fronteggiare la fragilità “naturale” del Paese, da sempre tormentato da catastrofi naturali, terremoti e tsunami.
Una riflessione conclusiva non può non andare alla terrificante versione italiana del film: messe a referto le solite voci “giapponizzate” che ci perseguitano da sempre, c’è da stigmatizzare il doppiaggio fuori sincrono o persino assente (incredibile il momento in cui i due gesuiti incontrano la loro guida Kichijiro e parlano tra loro senza che il pubblico italiano possa decifrare alcunchè) e i sottotitoli inseriti a casaccio. Davvero, basta.
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