Tra tutti i lavori di Paul Thomas Anderson ce ne sono due che, per la loro peculiare costruzione narrativa (ripartita tra più personaggi e alternata su diversi punti di vista), considero unici e – sia tra loro, sia rispetto all’intera filmografia del regista – divergenti. Il primo è Magnolia (1999), dramma corale, scomposto e distante che si offre come parabola tra il biblico e il fantastico congetturando sul fato più che sulle persone, sulla struttura più che sui personaggi – eccedendo in hybris e lesinando sul significato –, mentre l’altro é il recente Il Filo Nascosto (Phantom Thread, 2017), film dalla precisione chirurgica che sapientemente seziona i generi, gli eventi, i personaggi e i sentimenti, rivelando un torbido melodramma che è anche e soprattutto un thriller romantico (tutt’altro che erotico), tanto (formalmente) freddo e simmetrico quanto (contenutisticamente) coinvolgente ed equilibrato.
Il Filo Nascosto è un prodotto così unico nel suo genere e così accurato nella sua messinscena da incuriosire per l’ibridismo pacato ed elegante, in cui il protagonista – un egoista e insofferente stilista di professione – si incontra e si scontra con un altro protagonista – un’ambigua e caparbia musa improvvisata – e che diventano, loro malgrado, l’uno l’ambizione dell’altra e l’una la salvezza dell’altro. A margine, l’amore, che altro non è che la tacita accettazione delle proprie e altrui manie.
Paul Thomas Anderson, che di rado sembra occuparsi d’amore, qui sceglie di farlo come solo lui avrebbe potuto, trasformando la passione in uno sfogo fugace e molesto, e il desiderio di stare insieme, di condividere, in una punizione tanto tollerabile quanto necessaria, utile a metter freno ai propri discriminanti individualismi. Il risultato è una storia d’amore dall’inaccettabile e inattaccabile morale, che convince per la sua eterna tensione a implodere. Se gli amori sono sempre unici e, per quanto indescrivibili, descritti in tutti i modi, questo è certamente più unico degli altri, meno evidente e più recondito, nascosto, come un filo di sutura.
Il fascino de Il Filo Nascosto è dato dall’iniziale compostezza, che si culla nei flemmatici carrelli e si risolve in inquadrature centrate e proporzionate in cui (pare) non esserci spazio per la vita e gli sgarri, per poi pian piano scivolare nell’instabilità, nei ritagli d’inquadratura, fino a richiamare un imprevedibile e ingestibile fuoricampo.
La maestria con cui Anderson passa da una struttura a un’altra, da un genere all’altro, dall’unicità di una prospettiva univoca alla frammentazione e rifrazione del punto di vista, è talmente attraente da eludere l’urgenza di una storia e delle sue ovvie dinamiche. Ci si trova così a osservare quel filo sottilissimo che lega Alma/Vicky Krieps a Reynolds/Daniel Day-Lewis – che si ritira lasciandoci un testamento attoriale di incalcolabile valore – temendo che si spezzi mentre Jonny Greenwood, ora con delicatezza ora con estremo vigore, non smette di pizzicarlo, di farlo vibrare, lasciandoci letteralmente ipnotizzati.
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