Sarò sincera, la prima stagione di Westworld (Jonathan Nolan e Lisa Joy, 2015-) non mi aveva impressionata. E non perché avessi considerato la serie scarsamente avvincente o poco curata, ma perché avevo trovato che gli autentici motivi di interesse fossero stati semplicemente procrastinati, complice la necessità di svolgere un compito primario: svincolare la storia dalla sua matrice cinematografica, Il Mondo dei Robot (Westworld, Michael Crichton, 1973), per poter (solo in seguito) osservarne le evoluzioni.

Costretti a mettere in scena l’antefatto – nei modi e nei toni dell’attuale serialità, quindi ridimensionando l’azione e concedendo spazio ai dialoghi e alle riflessioni filosofiche – Nolan e Joy sono ricorsi a un efficace escamotage simbolico (il labirinto) che fungesse da input narrativo e insieme riflettesse la peculiare scelta compositiva. Il labirinto, infatti, rappresenta sia il difficile percorso accennato anche nel film, ossia la presa di coscienza dei robot e il loro impulso alla ribellione, sia la struttura a incastro della serie che si mostra come un intricato dedalo di spazi e tempi storici tra i quali imparare a orientarsi.

Il labirinto fa di Westworld un luogo – fisico e mentale – chiuso e sigillato, uno spazio in cui disporre accuratamente una serie di eventi piuttosto statici, spesso già avvenuti (perduti e richiamati come sono dall’uso del flashback e dai dialoghi), smontati e rimontati per mettere tutto in una nuova prospettiva e promuovere una suspense rinnovata. Gli autori si dimostrano abilissimi nell’accantonare le dinamiche di genere per creare un nuovo orizzonte di aspettative, sostituendo alla linearità della fabula de Il Mondo dei Robot la complessità dell’intreccio a episodi, tanto da rendere la sceneggiatura di Westworld un meccanismo narrativo di rara perfezione. Purtroppo, l’estrema coerenza e la maniacale costruzione della prima stagione rappresentano anche forze d’attrito che possono mettere un freno alla curiosità di chi è in cerca del più puro intrattenimento. Per quanto stimolante, infatti, la risoluzione di un labirinto non può rispondere ai quesiti impliciti attivati dagli eventi, non rivela la natura del risveglio delle attrazioni, non anticipa le ipotetiche ambizioni dei robot, ma si limita a tratteggiarne la forma, a esserne un surrogato significante. Tutto bello, tutto affascinante, ma anche tutto estremamente meccanico (e propedeutico).

Le novità, fortunatamente, arrivano con la seconda stagione quando il plot de Il Mondo dei Robot viene superato e il labirinto risolto. E’ qui, infatti, che si cominciano a lastricare le strade in e oltre Westworld – prima attraverso The Raj, passando per Shogunworld, fino a agli oscuri luoghi sotterranei de la Culla e la Forgia – luoghi ora percorribili che (finalmente) rivelano la natura (organica e sintetica) e gli scopi dei numerosi personaggi e, cosa davvero interessante, l’origine e il processo di risveglio delle intelligenze artificiali, meravigliosamente messi in scena nell’ottavo episodio “Kiksuya”. E’ in questo singolare episodio che l’ambiguo (significante) labirinto incontra il suo significato e si palesa in tutta la sua complessità.

Alla semplicità – appena tratteggiata nella prima stagione – dell’input che “accende” la coscienza dei robot e si diffonde come un virus in una rete di host, si va ad aggiungere una spiegazione decisamente più affascinante e ancestrale: la nascita e la realizzazione di un’autentica tradizione digitale, non dissimile dall’umana e più antica tradizione orale. Nolan e Joy ci suggeriscono che i robot sono più umani di quanto non sembrino e che le loro ragioni per esistere siano più valide di quelle annichilite dell’umanità contemporanea. Non è un caso se Robert Ford (Anthony Hopkins) riconosca nel codice minimale dell’indiano Akecheta (Zahn McClarnon) una falla, un’infiltrazione dovuta alla purezza e alla curiosità del soggetto in grado di fargli accettare le verità più incredibili e fantasiose, verità che altri codici più strutturati e solidi non avrebbero mai accolto.

I robot azzardano possibilità che gli uomini hanno smesso anche solo di immaginare. Proprio come i nostri antenati più antichi, Akecheta osserva attentamente il mondo che calpesta testandone i limiti e attribuendo un significato ideale all’inspiegabile, ed è questo a fargli superare idee preconcette (codificate) e a spingerlo oltre i confini di Westworld dove scoprirà la tragica verità. Akecheta non fa né più né meno di quello che hanno fatto i nostri avi, compie un primo passo evolutivo e lo tramanda ai suoi simili. Naturalmente, essendo macchine, la tradizione orale e scritta si rivelano già superate, e ad esse si sostituisce una nuova tradizione digitale, in grado di sbloccare la coscienza e ampliare le capacità degli altri robot.

La conseguenza davvero affascinante, poi, è che ogni robot farà di quella coscienza uno uso diverso per accedere al mondo che desidera, dentro, fuori o oltre Westworld, riflettendo similmente le esigenze umane – dalle più semplici e nobili come farsi una famiglia, passando dalle altrettanto legittime ma più discutibili come insediarsi e difendere a tutti i costi la propria comunità, fino a quella più fanatica di dominare il mondo. Se Akecheta si “accontenta” della libertà e Maeve (Thandie Newton) si sacrifica per il bene della sua “gente”, Dolores (Evan Rachel Wood) prevede scenari decisamente più apocalittici. Come gli uomini anche i robot, emancipati dalle loro credenze pregresse, possono reagire diversamente, diversificarsi e scegliere come e dove vivere. E questo, mi pare, è il vero motivo di interesse di questa storia, di questa serie, libera finalmente dai limiti strutturali ed estetici della prima e algida stagione. Certo, magari qualcosa apparirà meno fluido, meno seducente, ma sicuramente le vicende non mancheranno di far lavorare il cuore, oltre che il cervello, rendendo il tutto decisamente più coinvolgente.



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