Vivere mille vite

Uno dei ricordi più nitidi che riemergono di tanto in tanto dalla mia infanzia è ambientato nella vecchia camera da letto dei miei genitori. Papà e mamma mi siedono accanto e siamo tutti rivolti verso il pesante comò in legno. Sopra c’è un televisore a tubo catodico: è un cassone grosso e squadrato, occupa quasi l’intera superfice del mobile, fatto salvo uno spazietto laterale su cui è poggiato un piccolo scatolotto di plastica nero. Quello scatolotto era un regalo di mio zio, a cui ora che ci penso non ho mai detto quanta influenza quel Atari 2600 abbia avuto nella mia vita. Intorno a me, mamma e papà si contendono il joystick per giocare a Battlezone, o “il gioco dei carri armati”, come lo chiamavamo allora. Lui e Jungle Hunt erano le nostre occasioni preferite per giocare tutti e tre insieme. Non ci pensavo da tanto, ma quel ricordo è lì da sempre e mi è tornato in mente, nitido come fosse passato giusto qualche giorno, leggendo Vivere mille vite. Storia familiare dei videogame di Vivere mille vite di Lorenzo Fantoni.

Se ci ripenso, buona parte della mie memorie sono in qualche modo legate ai videogiochi. L’esame di terza media è un buco nero, ma quel pomeriggio in cui abbiamo giocato fino a sera a Theme Park sul Mega Drive, nonostante i teli per la piscina già pronti nelle sacche, perchè non sapevamo se si potesse salvare e il nostro parco andava bene come mai, beh, quello non me lo scordo. Così come il viaggio per ritirare il primo PC, un Pentium 133 comprato da un fornitore di papà a Monza, o la prima volta che il PC si è piantato giocando a Grand Prix, col rombo del motore della mia Ferrari che gracchiava dalle casse facendo vibrare il mio sudore freddo. 

Coi videogiochi ci ho passato una vita, direi letteralmente. In effetti non ho mai detto a mio zio che per merito di quel Atari 2600 sono finito a laurearmi con una tesi sull’Economia dei videogiochi, per poi scrivere su siti e riviste. Col tempo, sono persino riuscito uno de miei direttori ad affidarmi una rubrica dedicata ai libri sui videogiochi. Così, nel tempo, per un motivo o per un altro, per lavoro o perchè l’argomento mi piace, ormai forse quasi più che giocare (oddio, l’ho detto!), di libri di videogiochi ne ho letti una carriola piena. E lo ammetto: all’inizio, nella prima manciata di pagine, Vivere mille vite. Storia familiare dei videogame mi è sembrato un po’ uguale a tanti altri che avevo già letto. 

Perché nei primi due, tre capitoli, quello che fa Lorenzo Fantoni è una cosa che hanno già fatto in parecchi prima di lui, ovvero raccontare i primi momenti del videogiochi attraverso scorci di vita di quei visionari che negli enormi elaboratori da parete dell’epoca hanno scorto potenziali macchine da gioco.  E Vivere mille vite questo pezzo non lo fa male per nulla, soprattutto considerando che è un libro pensato per chi i videogiochi ha voglia di scoprirli o di capirli, più che per me, benché sia riuscito comunque a sorprendermi almeno in un paio di occasioni citandomi aneddoti che non conoscevo. Ma, appunto, nulla di molto diverso da altri.

Il suo posto, Vivere mille vite lo trova un po’ più in là, e non a caso ciò accade quando il racconto approda negli anni ’80, gli anni dell’infanzia di Fantoni (ma anche la mia). A quel punto il libro inizia a fare qualcosa di diverso, semplice come tutte le buone idee, ma efficace: racconta la crescita del videogioco in parallelo con la crescita non solo dell’autore, ma anche della società in cui l’autore è immerso. 

E non è un percorso banale, soprattutto perchè affianca all’avanzamento tecnologico anche il ruolo sociale e culturale che il videogioco ha avuto dalle nostre parti, importantissimo e sottovaluto, perchè viviamo in un paese in cui ci ostiniamo a farci raccontare il presente da editorialisti settantenni che vivono fuori dal mondo per ragioni non solo anagrafiche, ma anche di classe e privilegio. 

In parallelo all’adolescenza e all’età adulta di Fantoni, si è srotolata anche quella di un’intera generazione che non trovando rappresentanti e rappresentazione nel mainstream si è appropriata di quel canale alternativo e settario che a lungo è stato l’internet. Non tutta la rete, ma in particolare i forum, quei luoghi in cui arrivavi per parlare di videogiochi con qualcuno di più simile a te e finivi per costruire relazioni decennali, di vario tipo. Poi internet, quasi di botto, è diventato di tutti, ma noi c’eravamo già prima, conoscevamo le regole meglio di tutti e sapevamo usarle a nostro vantaggio. Il problema è che noi non ci siamo rivelati tanto meglio degli altri, anzi. 

I videogiochi per anni sono stati una dimensione che ha offerto rifugio a chi là fuori non ci stava tanto bene: prima le sala giochi, poi i negozi di videogiochi e infine gli spazi online. Un percorso che chi è nato nei primi ’80 ha con ogni probabilità seguito per intero, senza accorgersi di come intorno a lui questo brodo stesse generando (anche) mostri, oltre a una vagonata di amicizie, legami e bei ricordi.

Il problema, che Fantoni coglie benissimo perchè lo ha visto evolversi in prima persona dall’interno da quel punto d’osservazione privilegiato che sono stati i forum all’inizio dei 2000, è che il brodo culturale in cui la comunità videoludica si è evoluta (e di cui quella di internet è in buona parte un’emanazione) è fortemente intrisa di intolleranza e misoginia. E sarebbe stato facile romanzare questa parte del racconto e riportare a galla solo il lato romantico delle sale giochi, ad esempio. Ma quei bellissimi scantinati puzzolenti e mal frequentati in cui abbiamo passato molte più mattinate di quante il nostro orario scolastico ufficiale avrebbe consentito erano anche, tra le tante cose, un covo di bullismo che abbiamo interiorizzato e rispedito al mittente quando la ruota ha girato e di colpo quelli fighi siamo diventati noi, con la nostra cultura enciclopedica su videogiochi e fumetti, e la capacità di muoverci su internet con la sicurezza dei padroni di casa. 

Così, con i suoi capitoli che si possono leggere in ordine diverso a seconda delle proprie priorità, come l’autore ci tiene a ricordarci fin troppo spesso, Vivere mille vite racconta davvero un sacco di esistenze diverse. Dentro c’è la storia dei videogiochi , raccontata di modo da renderla comprensibile e interessante anche a chi non c’era. C’è la vita del suo autore, per cui i videogiochi sono legati indissolubilmente alla figura del padre, tratteggiata con delicatezza e affetto. Ma sullo sfondo c’è il percorso di mille altre vite, per cui i videogiochi hanno rappresentato anche un faro valoriale distorto che Fantoni approccia criticamente, proprio perchè sa di esserci cresciuto in mezzo. Proprio questa partecipazione al rituale rende interessante la critica, perché non è un tentativo di rinnegare, o di giustificare la vittima che diventa carnefice, ma la consapevolezza di essersi accorti forse troppo tardi che il nostro mondo ha esportato non solo fenomeni popolari come Minecraft, ma anche lo sdoganamento di misoginia e omofobia, a cui in qualche modo tutti abbiamo partecipato almeno un po’ all’epoca. 

Un’analisi così interessante del videogioco, capace di toccare le sue numerose fonti di luce, ma anche gli anfratti più oscuri, poteva venire solo da qualcuno che ci ha davvero sguazzato dentro da sempre, dai negozietti di periferia ai forum, dai raduni al giornalismo online. Allo stesso modo, Vivere mille vite poteva venire solo da una casa editrice come effequ, che si è impegnata in un discorso critico sulle disparità e ha capito prima di molti altri, per cui l’impegno sociale è solo un canale di autopromozione come un altro, quanto le parole e persino le lettere (come la ə utilizzata in tutti i loro libri per introdurre il genere neutro) siano il punto di partenza per cambiare la realtà che ci circonda. 

 

 



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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