dacia maraini voci

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Voci — Dacia Maraini

Rizzoli


Nei casi di cronaca nera mi identifico per istinto con la vittima o, più spesso, con i suoi parenti, dunque accade di rado che io mi interessi del genere true crime, ormai abbastanza di moda da finire anche nelle mani di dilettanti annoiati. Quando leggo un giallo, invece, l’ago si sposta verso chi indaga a prescindere dai miei contorni biografici, che non mi apparentano certo a un anziano investigatore belga con dei magnifici baffi o a un’anatomopatologa statunitense.

Alla domanda “qual è il caso di cronaca nera che ricordi con più vividezza o di cui ti sembra di aver sentito parlare di più?”, le mie conoscenze hanno dato risposte varie e sfilacciate nel tempo: da alcuni che ricordiamo per il loro scalpore mediatico (Novi Ligure, Avetrana, Garlasco, Cogne, le bestie di Satana, Meredith Kercher, Luca Varani, Marco Vannini, la strage di Erba, la scomparsa di Denise Pipitone) ad altri più distanti che sono stati in parte mitizzati (Marta Russo, la scomparsa di Emanuela Orlandi, il delitto di via Poma, il mostro di Firenze, Francesca Alinovi, Leonarda Cianciulli, Wilma Montesi).
Nessuno ha menzionato la vicenda che ha segnato di più la mia immaginazione: l’assassinio di Desirée Piovanelli, avvenuto nel 2002 per mano di tre adolescenti e di un adulto.

Le ragioni per cui mi aveva colpito, esaminate a distanza di anni, sono abbastanza scontate e consistono in impressionabilità tardo-infantile, prossimità geografica e d’età, combinate a un senso di confusione nei confronti del segmento maschile della popolazione, in apparenza impegnato a ricercare la mia attenzione con metodi esasperanti che mi disorientavano.
C’è qualcosa dell’identificazione anche alla base dell’interesse che Michela Canova, la protagonista di Voci, prova per la morte di Angela Bari, la sua vicina di casa, sebbene all’inizio sia una più prosaica richiesta lavorativa a incentivare il suo impegno: siccome è una giornalista radiofonica, le viene commissionato un programma in quaranta puntate sui delitti “contro le donne”, “soprattutto impuniti”.

dacia maraini voci

Come le spiega il direttore Cusumano con misogina franchezza:

«Abbiamo scoperto, con le nuove indagini di mercato, che il pubblico femminile alla radio cresce giorno per giorno. Cresce precipitosamente, direi, disastrosamente. Vedo che lei dissente dal mio “disastrosamente”, ma ora le spiego, Canova, non c’è disistima per le donne, lei mi conosce, lo sa, il fatto è che dove arrivano le donne, anzi diciamo pure le casalinghe, arriva l’emotività, la famiglia, la gelosia, il pettegolezzo… Insomma, più cresce l’audience femminile e più noi dobbiamo calare il tono, mi capisce?

Volare basso, ecco cosa ci tocca… quindi niente politica, niente sport e lei sa che fatica avevamo fatto per portare le trasmissioni sportive ad un livello di eleganza anche linguistica… perché noi qui facciamo il linguaggio, questo gliel’ho già detto altre volte… noi siamo la coscienza linguistica dell’Italia, una piccola coscienza s’intende, una piccola parte dell’insieme, ma lo siamo e il pubblico femminile è prelinguistico, prelessicale, vuole mettere le mani sui sentimenti bruti, ecco perché parlo di catastrofe.»

La sua bella faccia di ragazzo per bene si protende sul tavolo esprimendo una vera intelligente sofferenza.
«Le donne vogliono le storie, ha capito, Canova, le storie d’amore naturalmente prima di tutto e poi di morte, di sofferenza, di terrore, ma hanno una fame cronica di storie.»

Perché non partire proprio dalla storia di Angela Bari, quindi, uccisa a coltellate, il cui cadavere è stato ritrovato dal portiere in una qualunque mattinata estiva a Roma.
Dacia Maraini costruisce il suo personaggio in antitesi con Michela Canova: da un lato, la fragilità sfuggevole di un’attrice di scarso successo che vive grazie ai cinque milioni di lire mensili che le passa sua madre e alla quale viene attribuito un interesse velleitario per la prostituzione; dall’altro, una professionista indipendente con una vita ordinata.

Anche se Michela continua a prendere informazioni su altri casi, spesso di pedofilia, il suo sguardo si concentra sempre più sull’occupante dell’appartamento di rimpetto al suo. Con la sua attrezzatura ancora ingombrante (uno dei pochi elementi a tradire l’epoca della pubblicazione, visto che il romanzo è uscito per la prima volta nel 1994), Michela intervista una serie di figure importanti della vita di Angela Bari, dove spiccano soprattutto la sorella maggiore Ludovica, incapace di tracciare una chiara distinzione tra le loro due vite, e la madre Augusta, che Maraini ritrae, con un certo gusto camp, come una diva regale traumatizzata dalla sfioritura della propria bellezza. Eppure l’impressione è che a capire di più Angela fossero la prostituta Sabrina e il suo protettore Nando: nonostante una certa cifra di ambigua inaffidabilità, sembrano essere arrivati più vicini alla giovane rispetto a persone dal passato in teoria più rispettabile.

E la legge cosa fa? Esiste, nel personaggio del commissario Adele Sòfia, che tanto incoraggia la protagonista quanto ne accoglie con scetticismo le conclusioni (Sòfia riapparirà poi in Buio, la raccolta di racconti che è valsa a Dacia Maraini il premio Strega nel 1999).
Nelle interviste, l’impostazione del romanzo ricorda quella di un giallo classico: il detective cerca di incontrare tutti gli indiziati e di interrogarli sugli eventi in questione. Che la protagonista sia una giornalista radiofonica risolve con eleganza il problema di credibilità che si presenta quando il detective lo è solo metaforicamente. Come molti noir, la narrazione è in prima persona, però la voce di Michela Canova non ha nulla di cinico e disfattista, né sembra facile farle perdere l’equilibrio: anche quando intuisce che Marco, il suo compagno, potrebbe essere rimasto invischiato nel fascino da bambola di Angela Bari, la scoperta non sembra davvero frantumare la sua visione del mondo.

Rileggendo il romanzo, continuavo a chiedermi se oggi Michela Canova non curerebbe un podcast true crime. Con la sua formazione professionale, immagino che sarebbe un progetto simile a Polvere o forse a Demoni urbani piuttosto che a qualche epigono italiano di My Favourite Murder. Il pubblico ascolterebbe settimana dopo settimana le voci di tutte le persone coinvolte, si formerebbero dei fandom basati sul senso di intimità generato dal seguire per minuti, per ore, la voce di qualcuno che racconta di sé. Innocentisti e colpevolisti. Una relazione parasociale diversa da, ma in potenza affine all’ascolto ossessivo di un album o di una canzone? In questo modo finirebbe per somigliare a una versione solo audio di certi programmi che vanno in onda nel tardo pomeriggio su Rai1 e su Canale5, il cui target sono le donne affamate di storie d’amore e morte di cui parlava il direttore Cusumano, attratte dall’identificazione con la vittima o può darsi anche da qualcosa di più complesso (catarsi, voyeurismo, possibilità di giudicare chi di certo ha sbagliato qualcosa per finire “così”).

O magari il coinvolgimento di Michela Canova in un’inchiesta ancora in corso risulterebbe troppo controverso, sebbene in Italia le zone grigie tra giornalismo e giustizia non siano un mistero per nessuno?
Si potrebbe dire che anche io, del resto, ho una fame cronica di storie; che le preferisca finzionali, prive di sensazionalismo, se possibile con uno stile distintivo, è lungi dall’indicare una mia superiorità di qualche tipo. Mi sono stati garantiti gli strumenti per decostruire non le terribili storie vere che i Cusumano della televisione — chissà se con lo stesso disprezzo che Maraini attribuisce al suo personaggio — spacciano alle loro spettatrici, ma la manipolazione che subiscono nell’essere raccontate in contesti che le considerano intrattenimento.
Un meccanismo di segno contrario potrebbe influenzare la scelta delle copertine quasi sempre assegnate a Voci: suggerirne l’esplicita appartenenza al genere del giallo potrebbe attirare un pubblico diverso da quello che si desidera per il lavoro di Dacia Maraini. 

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