Nel 1966 La Trilogia delle Fondazioni di Isaac Asimov si aggiudica lo Hugo Award nella categoria Best All-Time Series e se questo in sé, retroattivamente, non stupisce – l’autore è universalmente considerato uno dei padri della fantascienza (genere che si è originato dal Frankenstein di Mary Shelly) – risulta bizzarro pensare al fatto che uno dei contendenti fosse addirittura Tolkien con la trilogia del Signore degli Anelli.
Sarebbe stato arduo mettere in competizione due autori dallo stile e dal fine narrativo più divergenti. Esempio emblematico è l’attenzione dedicata al world building: il lavoro certosino attraverso il quale il mondo del Signore degli Anelli emerge dettagliatissimo, per accogliere una vicenda epica con l’archetipale scontro tra Bene e Male, contrasta nettamente con la Galassia di Asimov ricca di storie slegate tra loro che si snodano lungo archi narrativi in cui l’azione è solo marginalmente presente, oppure accade in una sorta di off screen della pagina; storie che per altro abitano un universo presentato in modo diretto e sintetico.
Lo stesso Asimov, dovendo tornare ad arricchire di storie la trilogia dopo svariati anni, nel momento in cui si trova a dover rileggere il suo lavoro, scrive della propria opera:
I read it with mounting uneasiness. I kept waiting for something to happen, and nothing ever did. All three volumes, all the nearly quarter of a million words, consisted of thoughts and of conversations. No action. No physical suspense. What was all the fuss about, then? Why did everyone want more of that stuff?
To be sure, I couldn’t help but notice that I was turning the pages eagerly, and that I was upset when I finished the book, and that I wanted more, but I was the author, for goodness’ sake.
E in queste poche righe l’autore mette nero su bianco l’esperienza dei lettori che a tutt’oggi considerano il Ciclo delle Fondazioni una pietra angolare della fantascienza, e il grande classico che nessun appassionato del genere può non leggere se vuole definirsi tale.
L’opera sarà anche parca di azione e avventure, priva di quasi tutti gli elementi che normalmente suscitano il sense of wonder – niente mondi fantastici, pianeti da esplorare, battaglie nei cieli, eroi propriamente detti – ma dobbiamo tener presente che lo spunto originario proviene da Decadenza e Caduta dell’Impero Romano di Gibbon, e che quindi Le Fondazioni assomigliano molto di più a un archivio di vicende di interesse a carattere storico e storiografico che a un romanzo d’avventura: non a caso l’opera è conosciuta anche come Cronache della Galassia.
Quindi cos’ha di speciale il la trilogia delle Fondazioni? Quello che cattura da subito è il pensiero in luogo dell’azione sul campo. È il discorso diretto a muovere le storie e far dipanare le trame davanti ai nostri occhi. Asimov sceglie cerebralmente la dialettica e l’acume politico e militare per farci vivere circa cinquecento anni della Galassia quasi come se fossimo testimoni oculari del predestinato declino dell’Impero Galattico, e della crescente importanza della Fondazione nel preservare le sorti future dell’umanità.
E, per quanto mi riguarda, annotazioni del genere, che mostrano l’efficace vacuità della retorica politica, valgono bene una battaglia sul campo:
Quest’ultima analisi è stata la più difficile delle tre. Quando Holk, dopo due giorni di duro lavoro riuscì ad eliminare ogni affermazione priva di significato, le parole incomprensibili, gli aggettivi inutili, in breve tutto ciò che era irrilevante, scoprì che non era rimasto niente. Aveva cancellato tutto. Signori, in cinque giorni di discussioni, lord Dorwin non ha detto assolutamente nulla, ed è riuscito a fare in modo che voi non ve ne accorgeste.
Da un’opera con queste caratteristiche è evidente quanto la trasposizione seriale (ma anche cinematografica se fosse stato quello il caso) sia problematica fin dalla premessa che, per quanto affascinante e originale, è assolutamente di pensiero, cerebrale e teorica.
Siamo a un punto della Storia in cui l’Impero Galattico esiste e prospera da circa 12mila anni. Hari Seldon (Jared Harris), la più grande mente del suo tempo e di quelli a venire, ha però messo a punto un sistema: attraverso la psicostoria, realizza un apparato predittivo basato su matematica e statistica, grazie al quale è possibile prevedere – con margini di errore matematicamente trascurabili – il futuro dell’umanità fino a decine di miglia di anni in avanti. Attraverso il modello matematico, Seldon ha previsto l’inevitabile crollo dell’Impero Galattico a cui seguiranno trentamila anni di barbarie e distruzione.
Seguendo però le indicazioni di Seldon, l’inevitabile interregno segnato dalla fine della civiltà, può essere ridotto a soli mille anni, trascorsi i quali la galassia tornerà all’ordine e al benessere. Per indirizzare gli eventi nel modo giusto, lo scienziato chiede di poter realizzare una Fondazione: le persone che si dedicheranno a essa avranno come unico scopo il redigere l’Enciclopedia Galattica, un compendio volto a preservare l’intero scibile umano, evitando così che i disordini e le barbarie azzerino ogni conoscenza fino a quel momento acquisita. L’Impero è diffidente e riluttante, ma concede a Hari Seldon e ai suoi uomini la possibilità di istituire la Fondazione su un pianeta periferico – Terminus – ai confini della Galassia.
Il primo volume della trilogia è una raccolta di cinque storie tenute insieme dall’esistenza e dalla necessità di preservare la Fondazione, ma nella sostanza sono slegate tra loro: coprono periodi storici diversi e quasi mai ricorrono personaggi già conosciuti e che quindi sono, invariabilmente, sprovvisti di backstory.
La serie Apple, sceneggiata da David S. Goyer, interviene sulla materia originale per adattarla al nuovo medium e alle aspettative del pubblico. La Galassia è sontuosamente rappresentata, così come la sua capitale, l‘ecumenopolis Trantor sede dell’Impero Galattico al cui capo troviamo tre individui: un bambino, un uomo adulto e un anziano. I tre sono Brother Dawn (Cooper Carter), Brother Day (Lee Pace), and Brother Dusk (Terrence Mann), ovvero i cloni dell’antico sovrano Cleon in tre momenti diversi della sua vita. Questa è la prima e più vistosa libertà presa dagli autori rispetto al materiale di partenza. Nelle Fondazioni non esiste clonazione e Cleton I è solo nominato. Con questo escamotage, però, Goyer dota la serie di continuità: una dinastia che si perpetua nei secoli è molto più efficace del continuo avvicendarsi di volti e funzionari.
La Trilogia delle Fondazioni è anche un’opera la cui stesura è iniziata negli anni ’40 questo vuol dire anche che la presenza femminile è quasi nulla. In Foundation, granzie all’ormai quasi di routine gender swap, facciamo la conoscenza di tre personaggi chiave femminili: il prodigio matematico Gaal Dornick, la consigliera Eto Demerzel e Salvor Hardin. Tutto questo avviene senza che la storia ne risenta: sia perché Goyer pavimenta nuove strade narrative, sia perché Asimov ha talmente poco tratteggiato i suoi personaggi, se non in base a ruoli, funzioni e capacità intellettive, che se non fosse stato per i pronomi davvero non avremmo potuti dirli personaggi maschili o femminili.
Quanto all’assenza di grandeur, momenti memorabili e scene d’azione, Foundation trova subito il modo di animare la serie attraverso la sequenza della distruzione dello Starbridge di Trantor. Tanto per far capire che l’universo della serie è molto più vivo e palpabile e pericoloso di quello tratteggiato dalla penna di Asimov.
Dopo solo due puntate è difficile capire cosa ci aspetta, ma con le prime due ore di spettacolo possiamo dire che il cast è un punto di forza, la caratterizzazione dei personaggi funziona dal punto di vista drammaturgico e i valori produttivi garantiscono una resa suggestiva e spettacolare dotando Foundation di quel world building poco più che accennato nella controparte cartacea. Il vero banco di prova dell’adattamento – o snaturamento – sarà però nel vedere come gli autori hanno gestito il resto della storia, o meglio: delle storie.
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