Parto domandandovi una cosa: quanti in un fps giocano la campagna single player? Domanda forse fuori dal tempo, ma questo caso piuttosto interessata, considerando che in questa recensione di Call of Duty: Modern Warfare 2 mi occuperò esclusivamente del comparto destinato al giocatore singolo. Scelta impopolare e strana, lo so, ma è proprio di questo che voglio parlare: della scarsa attenzione destinata al single player in questo franchise (e negli fps in generale). Nella fattispecie, dunque utilizzerò l’ultima fatica targata Activision e Infinity Ward per cercare di far comprendere ai più il mio pensiero, che mi auguro sia tutt’altro che banale.
Il Punto Zero
Quello di Modern Warfare è stato uno dei franchise più solidi e remunerativi della settima generazione di console – Xbox 360 e Playstation 3 per intenderci – cementando il brand di Call of Duty nel gotha delle grandi attese con cadenza annuale. Ai tempi della pubblicazione di Modern Warfare (2007) ero da qualche mese un’adolescente; un periodo strano per molti versi, ma che segnò il mio avvicinamento a quello che, anni più tardi, avrei cominciato a definire come linguaggio. I videogiochi non erano più qualcosa di semplicemente meccanico, di procedurale. E il fatto che nello stesso periodo conobbi Tom Clancy (lo scrittore, col suo stile e i suoi temi da cui sarebbero poi derivate diverse trasposizioni videoludiche, ndr) fece sì che giochi come Call of Duty mi apparissero di colpo sotto una luce diversa.
Non c’è un vero e proprio termine identificativo omnicomprensivo per definire il genere di queste produzioni. Volendoci attenere alla narrativa sarebbe forse opportuno definirli techno thriller o military fiction, ossia quei thriller contaminati da generi non necessariamente attigui, come la fantascienza per esempio. Nella tradizione letteraria Clancyana troviamo una lunghissima serie di elementi distintivi, quali lo spionaggio espresso attraverso agenzie d’intelligence e relativo personale, armi avveniristiche (ecco la fantascienza) e non da meno, le forze speciali.
L’immagine collettiva che abbiamo degli uomini che compongono queste unità, è spesso alimentata dalla cultura popolare. Basti pensare alla lunga tradizione cinematografica che, soprattutto al di là dell’Atlantico, ha trovato un terreno ben più che fertile. Ecco, è proprio in questo contesto che Call of Duty: Modern Warfare (2007) si inseriva. Da oltre un decennio, l’archetipo dell’operatore appartenente all’unita x (SAS, Delta etc) si era fatto largo all’interno della proposta videoludica, con ip che in alcuni casi sono sopravvissute all’incedere del tempo e delle mode, come Rainbow Six o Ghost Recon.
Giocare nei panni di elementi appartenenti alle forze speciali, almeno per quel che mi riguarda, era galvanizzante. Movimenti rapidi e puliti, precisione chirurgica e, naturalmente, linee di dialogo perennemente in bilico fra il linguaggio militare standard e battute muscolari dal retrogusto cringe.
Tuttavia, è innegabile come negli ultimi anni questo genere di proposte siano state un po’, come dire, latitanti. Persino il brand di Call of Duty ha spesso intrapreso strade diverse, arrivando a limitare, o in alcuni casi a omettere, quelle coordinate stilistiche che al contrario avevano reso Modern Warfare uno standard quasi da emulare; fino al suo reboot nel 2019.
Nell’anno della pandemia, tutto ciò che amavo di Call of Duty venne riproposto in una veste estetica e narrativa incredibile, forte anche di un comparto sonoro capace di rendere l’esperienza, se non simulativa, senz’altro profonda e incalzante. Con queste premesse non potevo che essere entusiasta per l’annuncio dell’ovvio sequel, che di recente ho avuto modo di gustare per Players.
Di questo Modern Warfare 2 non sapevo molto, e col senno di poi sono contento di essere arrivato a premere play immune da contaminazioni esterne. Da anni ho preso l’abitudine di scansare quasi ogni tipo di anticipazione, con tutto ciò che questo comporta, beninteso. Le uniche informazioni in mio possesso mi suggerivano soltanto qualche dettaglio sulla trama e i personaggi, ma nulla di più. E infine, dopo averlo giocato e rigiocato, posso definitivamente dire di esserne rimasto soddisfatto nel complesso, seppur con qualche piccola riserva. Ma andiamo nel dettaglio.
L’attualizzazione del contesto
Il canovaccio narrativo qui propostosi propone come un sequel diretto al Modern Warfare del 2019, pur ricalcando alcuni assetti già presenti nell’originale Modern Warfare 2. È chiaro che la parentela con il capitolo del 2009 non vuole essere recisa completamente, ed è senz’altro una nota positiva. Ciò nonostante è altresì vero che non siamo di fronte a un remake – dettaglio spesso ignorato – ma bensì a un nuovo volto che Activision ha deciso di associare al franchise di MW. In tal senso osserviamo delle virate strettissime, che fanno divergere non poco i due capitoli. Se nel 2009, complice anche un quadro geopolitico che vedeva ancora la presenza americana in Iraq e in Afghanistan, si giustificavano alcune scelte narrative, con gli attuali equilibri (e squilibri) contemporanei quel contesto perde almeno parte del suo senso contenutistico. È stato quindi necessario attualizzare il contesto. Già nel capitolo del 2019 era possibile stabilire dei parallelismi con l’attualità: dall’attentato a Piccadilly Circus, metodologicamente ricordava molto il modus operandi dell’ISIS, all’occupazione russa del Urzikstan, uno stato fittizio i cui richiami con la Siria sono fin troppo evidenti.
Call of Duty: Modern Warfare 2 propone dunque il classico contesto fantapolitico di cui CoD è sempre stato un fiero alfiere. Troviamo difatti un inevitabile (e futuribile) attrito fra USA e Iran a fare da testa di ponte all’intera vicenda; da qui, in rapida successione, si dipaneranno una serie di sottotrame che torneranno a congiungersi solo negli atti finali. La neonata TF141 verrà chiamata a operare in giro per il mondo come di consuetudine, con l’obiettivo finale di sventare un piano ipotetico (?) di attacco diretto sul suolo americano. Se c’è una cosa che ho capito da quando gioco e conosco Modern Warfare è che c’è sempre un ipotetico missile diretto verso una città, per lo più statunitense. È oramai un fattore matematico.
In tutto ciò fa capolino una nuova ambientazione per il franchise; una nuova rotta che può piacere, o forse no, ma per quanto mi riguarda aprire le porte al Messico è stato per me ambizioso, oltre che intelligente. Sulla falsariga del Soldado di Stefano Sollima, questo CoD esplora la collusione dei cartelli messicani con il terrorismo internazionale, proponendo di conseguenza un’interessantissima variazione del tema classico trattato in Call of Duty. Naturalmente il brand non è del nuovo a questo genere di operazioni, e la fuga al cardiopalma di Soap dalle Favelas nel capitolo del 2009 dimostra quanto la vecchia trilogia sia tuttora utilizzata come fonte di ispirazione e rimandi.
Ma tutto questo funziona? In larga parte sì. Certo, siamo lontani dagli intrecci proposti in veri gioelli del genere (come Battlefield 3), ma nel complesso la storia mostra a mio avviso poche ingenuità, pur non brillando mai come la sua controparte tecnica. A stonare sono invece alcune scelte stilistiche di cui francamente non mi capacito troppo. A partire da soldati inglesi inquadrati in un’unità soltanto, all’apparenza internazionale, ma che invece prende ordini esclusivamente dalla CIA e dal DoD; perché usare personale su cui non si ha autorità? Sarebbe logico supporre un’unità mista sotto l’egida di un comando misto, ma non è questo il caso. A ragion di memoria, questo è il primo MW (se non addirittura il primo Call of Duty) in cui non si utilizzeranno mai operatori americani. Non riesco a dare un senso a questa scelta.
Oltre questo ho poco apprezzato alcune situazioni, a dir poco rocambolesche, che faticano ad abbandonare le sceneggiature il franchise e che, a mio modesto parere, richiedono un notevole uso della sospensione dell’incredulità per essere digerite senza storcere il naso, sfiorando quel labile confine fra Tom Clancy e un Die Hard qualsiasi (senza nulla contro Die Hard, sia chiaro, ma è altro genere e altre regole, ndr). Il mix a cui CoD ci ha abituato è senz’altro divertente, ma ha biosgno di essere ben dosato, cosa che purtroppo non sempre avviene. Si potrebbe anche spendere mezza parola sulle licenze delle armi, che qui mancano, ma convengo che il discorso sarebbe più etico che altro, oltre che perfettamente comprensibile.
L’incredibile telaio di Call of Duty: Modern Warfare 2
Non possiamo discutere del successo di Call of Duty: Modern Warfare 2, però, senza finire a parlare dell’incredibile comparto tecnico. È un fatto. Per quanto cerchi sempre, in maniera inutilmente intellettuale, di dare poco risalto alla cosa, è innegabile quanto invece la tecnica qui giochi un ruolo privilegiato. MW2 è visivamente a dir poco magnifico. Una veste grafica che per il momento possono vantare in pochi: a partire dai design delle innumerevoli bocche da fuoco presenti nel gioco, tutte fedelmente riproposte, fino al character design, ai limiti del fotorealismo. Persino le posture di tiro più contemporanee sono state verosimilmente replicate. Ma un comparto grafico, per quanto incredibile, non riuscirebbe a da solo a esaltare la qualità di un gioco simile senza il supporto di un altrettanto incredibile comparto sonoro. Dalla dispersione del suono prodotto dagli spari, fino alla verosimiglianza dei boati stessi, MW2 segna un vero e proprio standard da eguagliare se si vuole proporre un titolo pari genere.
Per quanto concerne il gameplay, non siamo di fronte a nulla di rivoluzionario; si tratta dell’aspetto che non mi ha meno sorpreso nel complesso. Non saprei dire in che modo andrebbe rivoluzionato uno shooter in prima persona, posso però dire che in questo caso l’approccio classico al gameplay risulta tutt’altro che invecchiato. Anzi, gode di ottima salute. D’altronde la formula è sempre story driven, e di conseguenza poco avvezza a chissà quale stravolgimento. Eppure qualche minuzia c’è, a partire da una piccola sezione di crafting, che talvolta ci permetterà di creare consumabili (armi bianche, esplosivi etc); ma anche sporadiche incursioni dal settore ruolistico, attraverso linee di dialogo a risposta multipla. Tutte features dimenticabili sia ben chiaro, ma che ci sono e regalano un briciolo di varietà che non guasta.
Concludo con una domanda retorica: hanno senso queste esperienze single player oggi? Forse no, o meglio dire, forse non a quel prezzo. Allora perché faccio fatica ad abbandonare l’idea di giocarli in singolo?
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