Il protagonista di Sifu ripreso di spalle al tramonto

Non un semplice rougelite, non un semplice action, e neppure un banale esercizio di stile: Sifu è un cattivissimo gioiellino carico di estetica, regia e gameplay; ma facciamo il punto.

Siamo nel 2017, e la sede parigina di Sloclap freme per la pubblicazione della loro opera prima: Absolver, un atipico picchiaduro con elementi e sentori MMO, che riuscì a convincere pubblico e critica non solo della sua genuinità, con dei concept presi in prestito un po’ ovunque, dal fantasy orientaleggiante, ai classici del cinema marziale di Hong Kong, ma anche e soprattutto della sua cattiveria. Absolver, proprio come Sifu, era difficile, a tratti difficilissimo. Non a caso il suo fulcro risedeva proprio nel combat system; de facto la cosa più vicina a un simulatore di arti marziali.

Tesorizzata l’esperienza di Absolver, anni più tardi ecco che Sloclap torna, ancora una volta, con un picchiaduro in stile kung fu. Sifu per l’appunto.

Uno screenshot di Sifu

Sono gli stilemi del cinema marziale hongkonghese a determinare l’impronta artistica di Sifu, con una storia di vendetta che attinge a piene mani dal bagaglio stilistico di autori come Tsui Hark piuttosto che Ringo Lam. In questa cornice asiatica, vestiremo i panni di un giovane praticante di arti marziali a cui, anni prima, hanno ucciso il padre davanti agli occhi (è del tutto normale il senso di déjà vu). Notevole in tal senso la scrittura e la direzione del tutorial, che fungerà da prologo alla storia. Un modo a mio avviso brillante di introdurre il giocatore alle meccaniche, tutt’altro che semplici, oltre che alle dinamiche narrative del gioco.

Come ho già detto, Sifu è una storia di vendetta, e questo, per quanto deprecabile, ci piace. Inutile negarlo. Perché in un certo senso la vendetta – e tutto ciò che si compie per raggiungerla – ci appaga, ci motiva. In un certo senso ci rende inarrestabili. Una filosofia vendicativa in realtà già omaggiata da Tarantino nel suo dittico Kill Bill, dove, guarda caso come in Sifu, abbiamo una lista di gente da far fuori.

Quindi Sifu altro non è che un omaggio ludico a un certo cinema? Non proprio, o meglio dire, non soltanto. Il gioco infatti non percorre pedissequamente le coordinate del cinema marziale, ma le contamina con elementi non sempre presenti sul grande schermo, come ad esempio la presenza del sovrannaturale. Proprio come in God Hand del maestro Shinji Mikami, Sifu ha un pesante sottotesto fantasy, che non tarderà a fare la sua comparsa proprio negli attimi finali del tutorial.

L’età porta esperienza

Una delle meccaniche più fantasiose di Sifu è la possibilità di sacrificare la giovinezza del protagonista per scampare alla morte. Ecco quindi che fa capolino una delle varie contaminazioni “fantasy” di cui sopra: in particolare un amuleto che, ogni qualvolta moriremo – e moriremo tanto – ci permetterà di spendere un anno di vita per poter tornare in vita all’istante. In altre parole: più moriremo e più invecchieremo. Naturalmente vi saranno dei bonus e dei malus in relazione all’età raggiunta dal nostro combattente. Più saremo vecchi, e più saremo lenti e fragili, seppur con maggior esperienza in combattimento; aspetto che si tradurrà in colpi più precisi e letali. Il gioco ci permetterà anche di svecchiarci un po’ attraverso l’assegnazione di punti spendibili in appositi hub, oppure ricorrendo a del sano backtracking, utile non solo al fine di ottenere informazioni e collezionabili mancanti. Questo perché al completamento di ogni livello, il gioco salverà l’età con cui l’abbiamo portato a termine, permettendoci al contempo di ripeterlo con una densità di nemici inferiore, risparmiandoci di conseguenza qualche prezioso anno di vita.

Il gioco ha un notevole level design espresso attraverso cinque stage esplorabili, ognuno dei quali ricco di zone non sempre raggiungibili durante la prima incursione nell’area. Ci saranno infatti indizi e porte chiuse che potranno essere raggiunti solo dopo aver recuperato determinati oggetti (ad esempio delle chiavi) presenti in altri livelli, aumentandone, quindi, la rigiocabilità.

Uno screenshot di Sifu

La direzione artistica dei livelli è probabilmente uno degli aspetti che più mi hanno colpito del titolo di Sloclap. Ogni mappa ricalca a menadito la moderna tradizione architettonica cinese: muoversi nei dedali degli immensi condomini periferici, oramai trasformati in fortezze dalla criminalità organizzata – prova dell’eredità del gallese Gareth Evans e del suo The Raid – è qualcosa di viscerale. Anche la prospettiva qui regala qualche perla, come il furioso combattimento in piano sequenza che si svolge lungo un corridoio, proprio come in Old Boy di Park Chan-wook.

Con Sifu mi sento Jet Li

Come fu per Absolver, anche Sifu poggia prepotentemente sul proprio gameplay. Il kung fu viene portato per mano da un combat system allo stato di grazia; seppur cinico e punitivo quasi a livelli corporali. Saper tirare pugni e calci – senza dimenticarsi di sfruttare l’ambiente e i suoi elementi – è fondamentale non solo per la progressione, ma anche per la tutela della vostra sanità mentale. Sifu, come già ampiamente detto, è impegnativo, a tratti difficilissimo. I tempi di reazione sono spesso stretti e la masnada contro cui ci confronteremo è tutto fuorché tenera e deficiente. I mob ci attaccheranno solitari e in gruppo, esprimendo un kung fu spesso al nostro stesso livello. Un continuo schivare, parare e colpire. Fortuna che le coreografie sono talmente belle, da farti brevemente dimenticare il calendario che hai appena deturpato con blasfema retorica.

Discorso a parte, come sempre, per le boss fight: chi mi legge su queste paginemsa quanto siano artisticamente importanti per me. Pochi altri elementi di design valgono altrettanto per il sottoscritto.

Uno screenshot di Sifu

In Sifu gli scontri con i boss rappresentano il momento apicale dell’intera esperienza; non solo da un punto di vista artistico, ma anche pratico essendo molto impegnative. Qui il tocco registico (ed estetico) degli scontri è meraviglioso. Tutti i boss possiedono tratti e logiche di combattimento originali, che richiedono un quasi obbligatorio studio dei relativi pattern per poterli battere senza invecchiare troppo. Per capirci, con il terzo boss ho fatto perdere al mio protagonista otto anni di giovinezza.

I boss che andremo a combattere sono nomi da obliterare dalla nostra kill list di tarantiniana memoria, e per farlo non dovremo far altro che scalare i vari livelli fino all’apice. Filosofia ludica profondamente anni ’80, che fra le altre cose dimostra come l’eredità stilistica degli arcade sia ancora perfettamente in forma.

E infine, definirli banalmente belli sarebbe riduttivo, ma è ciò che sono. Meravigliosamente amalgamati all’ambiente in cui li affronteremo, siano essi templi in fiamme, foreste di bamboo (indoor) o spettacolari terrazze innevate, i design dei boss rappresentano l’aspetto estetico più ispirato dell’opera: dal volto delicato, quasi spettrale, di una donna giapponese, al tratto ruvido e sofferente di un gigante di due metri.

Sifu è tutto questo, un gioiellino carico di stile ed estetica sporcato appena da qualche bug del tutto dimenticabile. Poco altro credo si possa dire, se non che il talento di Sloclap è oggi fuori discussione.

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La cover Xbox di Sifu

 



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