Under the skin, ovvero sotto la pelle. Sotto la pelle della società, dell’identità, dell’umanità e dell’oltre umano; ma anche, per noi spettatori, al di là della pelle, prima di tutto dei pregiudizi. Perché Under the skin getta il cuore – delle aspettative – oltre l’ostacolo.

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Under the skin, ovvero la strana coppia: Jonathan Glazer, autore difficilmente classificabile, inquieto, spesso impervio, e Scarlett Johansson, diva glamour, bamboleggiante, che mai prima d’ora si era arrischiata a un azzardo (non soltanto interpretativo) come quello che attraversa come un’odissea dei sensi e della carne – oltre che della pelle – nel terzo lungometraggio di Glazer. Che avesse coraggio da vendere, il cineasta l’aveva già esaurientemente dimostrato nel 2004, con Birth – Io Sono Sean, pellicola ostica e respingente, in cui calava un’altra superstar (ma molto più versatile e ‘autoriale’ della Johansson, c’è da dire) come la Kidman in un ruolo controverso, quello di una vedova che si convince di ritrovare l’anima dell’amatissimo marito in un minorenne magnetico e inquietante, che del marito defunto sembra avere non soltanto i ricordi, ma anche l’amore per lei. Se Birth era ambizioso quanto tosto ed evocativo nella narrazione, questo Under the skin lo è nella messa in scena, con uno sguardo rarissimo al cinema – e oltre – di questi tempi.

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Un palcoscenico visivo folgorante, fascinoso e stordente, tanto videoartistico (d’altra parte Glazer è pure autore di videoclip musicali per i Blur e i Massive Attack) quando sfuggentemente cinematografico, immensamente e unicamente “da grande schermo”. In concorso al Festival di Venezia 2013, Under the skin è stato fischiato dal pubblico e per la maggioranza malmenato dalla critica (ci sono testimonianze di una povera Scarlett costretta a fuggire dalla Sala Grande dopo l’assalto a suon di “buuu” al termine della proiezione); eppure, era uno dei pochi film davvero validi, stimolanti e innovativi presentati alla kermesse veneziana e, probabilmente, una delle opere più preziose e rare viste negli ultimi anni, che piaccia o meno.

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La trama è presto detta, perché alquanto (volutamente e indefinibilmente) in-significante rispetto alla sua potenzialmente inesauribile traduzione in suono ed immagini: un’aliena cammina fra noi mortali, sulla terra, adesca gli uomini per portarli in un antro oscuro (extra-spaziale? Mentale? Metafisico?) dove si ciba, silente e invisibile, del loro corpo. Finché qualcosa cambia; anche se non c’è da fidarsi delle parole, del racconto, che sembra continuamente sfuggire alla nostra comprensione e logica, ai canoni appunto narrativi standard, persino a un semplice canovaccio. Under the skin è, basicamente, un lavoro sui sensi, contro i sensi, dentro i sensi: fatto di quadri disarmonici, di aggressioni visive silenziose, di lunghi componimenti musicali che s’affacciano su un apparente vuoto, di una bellezza scultorea come quella della Johansson che si fa davvero ultraterrena, spaventosa, cannibale; lascia che sia il nostro istinto a guidarci all’interno di un percorso visivo scivoloso, mentre l’extraterrestre incontra un essere umano orrido esternamente tanto quanto lei lo è (chissà?) internamente, inizia a cambiare, qualcuno la bracca, la sua “missione” e il suo istinto di sopravvivenza si sfaldano come la sua pelle, che finalmente emerge, “vive”, brucia nel fuoco delle emozioni umane, qualcosa che forse non ha mai trovato su nessun altro pianeta.

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Queste, comunque, sono pure illazioni interpretative: come detto, quel che conta in Under the skin è la nostra reazione emotiva e cutanea a un affastellarsi di apparizioni, sparizioni, esplosioni di sottile terrore e un costante interrogarsi sulla natura imperscrutabile e temibile delle immagini (e) della bellezza.



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