Ordinarie storie di lettura all’epoca dei social network. Pur avendo amato lo straordinario Elle di Paul Verhoeven, ero del tutto inconsapevole che fosse l’adattamento di un romanzo francese e per giunta già tradotto in italiano. Sarà che un film così te lo aspetti da un regista come Verhoeven, spesso sottovalutato e irriso per i suoi eccessi eppure capace di entrare in Criterion Collection con il suo Robocop, conquistando lo status symbol più desiderato dai registi partistoidi e menosi.

Invece Michèle Leblanc non è farina del sacco di Verhoeven, non del tutto. L’ho scoperto un giorno, per caso, mentre ero intenta a scrollare distrattamente Instagram. Mi spiace non ricordare quale influencer, booktuber o conoscente sia stato a postare la foto di un volume di Voland a cui di mio mai sarei arrivata, non essendo un drago sulla letteratura contemporanea francese. Purtroppo tocca anche ringraziare le moleste e odiatissime fascette giallo fosforescente, dato che non l’avrei comunque notato senza quella che reclamava la paternità della storia di “un grande film” per il suddetto, agilissimo romanzo.

“Oh…” di Philippe Djan è proprio la fonte a cui Verhoeven ha attinto per il suo progetto più ambizioso e pericoloso, tanto che presto si è dovuto rassegnare a non avere il sostegno di Hollywood: Sharon Stone coscia lunga e sguardo di ghiaccio sì, una donna che affronta uno stupro in maniera totalmente inaspettata giammai! A pensarla così sono state anche le tante attrici a cui il regista austriaco ha offerto la parte, tanto che Elle ha rischiato di non vedere mai la luce. Il resto è storia: per spaventare Isabelle Huppert ci vuole ben altro (già, chissà cosa servirà?), così lei e il regista si imbarcano in un film vicinissimo a territori pericolosi, frenato pure dal gap linguistico. Finirà con lui che tira fuori un nuovo punto chiave nella sua filmografia e con lei che strappa un Golden Globe e quella nomination agli Oscar che le mancava da sempre.
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Di fronte ad ogni adattamento filmico bisogna fare una scelta di metodo: prima il libro o prima il film? In questo caso il destino ha scelto per me, ma mi piace baloccarmi con l’idea che, ci fossi arrivata prima della pellicola, la Michèle di Djian Philippe avrebbe avuto il tono di voce beffardo e sublime della Huppert, tanto è logico e naturale accostarlo alla sua galleria di ritratti femminili forti.Di fronte all’imbecillità e al pressapochismo di affermazioni quali “il libro è sempre meglio del film” l’esclamazione di ambigua sorpresa di “Oh…” è un efficace rimedio. Se Verhoeven ci cava delle punte di vero genio e supera Djan, è proprio perché ha per le mani un romanzo eccezionale. Il binomio formato da “Oh…” e Elle è l’esempio perfetto di cosa dovrebbe essere un adattamento cinematografico: un’opera intrinsecamente identica all’originale, ma capace di incredibili tradimenti per mano di chi la dirige, spinto dalla voglia di dirci qualcosa di suo.La storia di Michèle è la medesima, con giusto qualche aggiustamento richiesto dal passaggio di medium. Conosciamo intimamente una donna più che adulta e men che anziana che subisce un’aggressione in casa sua e reagisce in maniera inaspettata. Nella settimana successiva soppeserà il matrimonio fallito, ma mai veramente chiuso, il valore di un figlio inetto ma caparbio, il potere esercitato su amiche e amanti, da rimettere al loro posto alla bisogna.

Gli scopi dei due uomini che la raccontano, Djan e Verhoeven, non potrebbero essere più distanti, così come i toni dei due racconti. Lo scrittore francese parte da un evento destabilizzante e violento per spingere un personaggio suo malgrado straordinario a fare l’inventario della sua vita, delle sue frequentazioni e dei suoi desideri, in un romanzo brevissimo,  ma capace di punte di puro acume, verità e autoanalisi che altrove si cercano inutilmente per capitoli interi.

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Paul Verhoeven invece mantiene il tono da thriller voluto da Djan ma trasforma la ricerca dell’aggressore da parte della protagonista in qualcosa di estremo e spiazzante, quasi da B movie, affiancandoci quei toni da commedia nera e surreale in cui lo sguardo ironico della Huppert brilla più che mai. Il film ha preso alla sprovvista Cannes e il mondo per come testi con la sua ambiguità la nostra marmorea convinzione che nessuno si meriti uno stupro e che subirne uno ti metta irrimediabilmente nel ruolo della vittima.

La Michèle del film si autodefinisce una stronza, non versa una lacrima ed è infallibile nel scegliere ogni volta l’opzione che ci renderà meno empatici e solidali nei suoi confronti. ll film sa essere volutamente inconsistente o appena abbozzato, perché il supposto realismo non ci distragga dal crescere di una sensazione insopprimibile e insopportabile, che è poi il traguardo che lo rende tanto memorabile.

In fondo quel sentimento che la società instilla e che combattiamo selvaggiamente alberga anche in noi. In fondo per essere davvero una vittima, almeno un paio di caselle nella lista della povera donna aggredita le devi spuntare. In fondo in fondo se non ci dimostri che stai soffrendo, se anzi tiri fuori gli artigli e contrattacchi (e torni a scopare e godere), se sei interpretata da Isabelle Huppert e se sei nata dalla penna di Djan e svezzata dalla cinepresa di Verhoeven, non è poi vero che anche in noi emerge quel retrogusto da “te lo meritavi”?



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