Nel 2008, Dead Space ha offerto una valida via di fuga al survival horror, in un momento in cui il genere sembrava avere imboccato in un vicolo cieco. Sviluppando con brio alcune soluzioni di gioco liminali al third person shooter (già introdotte in maniera primitiva e ingessata dai coevi episodi di Resident Evil), il titolo confezionato da Visceral Games è riuscito a costruire un solido template ludico, capace di gettare nuove basi su cui portare avanti la tradizione dell’horror digitale.

Questo approccio al gameplay è stato proposto in abbinamento con un’affascinante ambientazione fantascientifica, frutto di un sapiente blend tra fragranze estratte dalle più disparate declinazioni cinematografiche del sottogenere sci-fi a tinte orrorifiche. Echi del tarlante orrore psicologico di Event Horizon riverberavano in atmosfere opprimenti, simili a quelle de La Cosa, costruendo un tessuto ansiogeno che veniva sferzato da eccessi gore tipici del cinetrash a tema (come l’omonima pellicola Dead Space del 1991, di cui si è già discusso su Players #06). Ad amalgamare il tutto c’era uno script penetrante ma non invasivo, ben concertato con le fasi giocate e in grado di generare una tensione costante, che occasionalmente sfociava in situazioni da balzo sulla sedia.

Questo elogio del primo Dead Space (estendibile anche al seguito, Dead Space 2, pubblicato nel 2011) è una doverosa premessa per  introdurre la triste novella, ovvero che quanto di buono ha caratterizzato i due prequel non si ritrova (o si ritrova in forma assai depotenziata) in questo terzo episodio. Volendo azzardare un paragone filmico, giocare a Dead Space 3 equivale a vedere Prometheus dopo essere stati folgorati da Alien e Aliens.

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Dead Space 3 parte con il freno a mano tirato, abbandonando momentaneamente le suggestive ambientazioni spaziali, per alzare il sipario su una Terra devastata dalla Chiesa di Unitology, ossia da un macabro culto di origine aliena (già al centro degli eventi dei prequel) capace di trasformare i relativi adepti in sanguinari abomini organici, detti necromorfi. Gli zeloti della setta sono decisi a condurre l’umanità verso la mutazione di massa e l’unico che può arrestare il processo è, ancora una volta, l’ingegnere minerario Isaac Clarke. Quest’ultimo dovrà affrontare  una vera e propria odissea fantascientifica, che si snoda in un crescendo di cut-scene, cambi di setting e variazioni ludiche, dove l’atmosfera orrorifica viene immolata sull’altare della spettacolarizzazione dell’azione.

Sparatorie sui tetti di treni in corsa, spostamenti tra relitti di astronavi disperse nello spazio, atterraggi di emergenza su pianeti alieni e pellegrinaggi tra lande ghiacciate si susseguono senza soluzione di continuità, assecondando una sceneggiatura che pare tratta da un film di Michael Bay, piuttosto che da una pellicola di John Carpenter. A far svaporare definitivamente la tensione c’è il gruppo di comprimari che segue Isaac nella sua missione. Si tratta di un equipaggio costituito da personaggi mal caratterizzati e bidimensionali, che, oltre a demolire quel senso di alienazione tipico della serie, costituiscono un humus fertile per lo sviluppo situazioni al limite del ridicolo, infarcite di dialoghi dozzinali (come l’inopportuna storia d’amore, ossessivamente richiamata da melensi interludi sentimentali).

Queste scelte influiscono anche sulla credibilità della trama, dato che gli obiettivi di gioco stridono con la narrazione d’insieme, al punto da far sembrare Isaac un semplice galoppino, intento a svolgere il lavoro sporco per conto di una manica di astronauti isterici.

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La nuova direzione narrativa si ripercuote direttamente sul gameplay, flagellandolo con l’introduzione di varianti di gioco pretestuose e mal integrate nell’ossatura ludica della serie. Lo spartano sistema di copertura da utilizzare durante i conflitti a fuoco contro avversari umani o le noiose arrampicate in cordata su pareti rocciose sono alcuni dei gimmick utilizzati da Dead Space 3 per piegare la formula originale alle esigenze di un game design che cerca di stupire l’utente con continui colpi di scena. Inoltre, la gestione degli scontri con i necromorfi è stata drammaticamente improntata sull’azione, a discapito degli aspetti strategici e prettamente survival horror.

L’inedita possibilità di creare armi personalizzate, attraverso il recupero e l’assemblaggio di componenti sparse per lo scenario, offre un ampio spettro di varianti offensive, a cui il gioco fa fronte proponendo creature poco diversificate tra loro. Se questo approccio, da una parte, non vincola né mortifica le scelte operate dal giocatore in termini di customizzazione del proprio arsenale,  dall’altra, appiattisce i combattimenti e riduce drasticamente l’effetto sorpresa, considerato pure che la stragrande maggioranza dei necromorfi è stata ripresa dai prequel e leggermente modificata dal punto di vista estetico.

Anche gli ambienti non fanno nulla per gettare un’ombra d’inquietudine sull’avventura, risultando poco ispirati, nonché privi di particolari disturbanti. Le strutture incrostate da mucillagini aliene o sfregiate dagli ominosi geroglifici di Unitology sono pressoché un ricordo e fanno solo una fugace apparizione durante le battute finali del gioco, quando, invero, si tornano a respirare le atmosfere tipiche della serie.

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Dead Space 3 dà anche un amaro assaggio di quello che – almeno stando alle indiscrezioni – sembrerebbe essere il trend di fruizione videoludica proposto dalla prossima generazione di console. Infatti, fa la sua prima comparsa nella serie il multiplayer cooperativo, il quale, però, è inspiegabilmente accessibile solo online. A questo si aggiungono anche delle assurde microtransazioni in-game, pensate per pagare con soldi reali delle quantità variabili di componenti virtuali, utili per costruire le armi.

C’è da dire, comunque, che alcune modalità alternative fanno riemergere con un certo vigore la vocazione surivival horror del prodotto, come la possibilità di rigiocare l’avventura in versione classica (con le armi accessibili solo previo recupero degli schemi di costruzione) oppure cimentandosi nel Pure Survival Mode, che impone di ricavare tutto l’equipaggiamento (compresi gli accessori, come i kit medici e le munizioni) attraverso l’assemblaggio delle risorse raccolte.

In fin dei conti, Dead Space 3 resta un gioco godibile e di ottima fattura, ma dove il divertimento si muove per inerzia, scviolando pigramente lungo il piano inclinato dell’eccellente struttura ludica ereditata dai prequel. Per il resto, questo terzo capitolo non offre alcuna innovazione capace di esaltare la personalità del franchise, ma, anzi, sembra fare di tutto per stravolgerla e reindirizzarla verso i grigi lidi della massificazione.



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Piero Ciccioli

Coniuga da anni la sua professione di ricercatore scientifico a quella di articolista e saggista specializzato in videogiochi, cinema d’exploitation, horror, fumetti e nei più disparati prodotti di entertainment d’origine nipponica. Nutre una viscerale predilezione per tutto ciò che è weird e sogna di radere al suolo una riproduzione in cartapesta di Tokyo, vestito da Godzilla.

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1 Comment

  1. cmq molte cose della serie Dead Space mi sembrano copiate pari pari da “System Shock 2”, in particolare una missione di Dead Space 3 dove devi entrare nel… vabbè non voglio rovinare la sorpresa agli utenti ;)

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