Nel 2011 passa al Festival di Venezia (sezione Giornate degli Autori) un film di considerevole durata, sul quale si abbattono alcune critiche che spaziano da accuse di presunzione a dichiarazioni di ridicolo.

Il film in questione è Café De Flore di Jean-Marc Vallée, per chi scrive un piccolo gioiello, due storie intrecciate, ambientate in epoche diverse, che fluiscono l’una dentro l’altra attraverso lampi, flash troppo assurdi per essere flashback, sogni e incubi impossibili, volti che ritornano riflettendosi dentro occhi sperduti e disillusi dal presente e dagli altri. Fino a manifestarsi come legati da qualcosa che trascende la logica spaziotemporale, trovando la loro unica ragione dell’anima, nell’amore. Sempre e comunque.

Café De Flore era opera che alzava l’asticella, che richiedeva quella sospensione assoluta dell’incredulità che, al cinema, nell’istante in cui le luci svaniscono, dovrebbe essere automatica e desiderata. Dopo un atto di coraggio del genere, da Vallée (autore oltretutto del bellissimo C.R.A.Z.Y, ergo: punto in più) era lecito aspettarsi grandi cose, fuochi d’artificio, scossoni tellurici. E arriviamo al progetto di Dallas Buyers Club, con un duo d’attori decisamente stuzzicante: il ‘manzo redento’ McConaughey, votato da un paio d’anni a questa parte a performance stravolgenti e schizoidi, e il factotum Jared Leto, leader dei 30 Seconds to Mars, artista poliedrico, mutevole, già protagonista del magnifico Mr. Nobody e con uno spirito d’intraprendenza di uno che la paura non l’ha mai vista nemmeno di striscio.

La storia di partenza era interessante, potenzialmente stimolante ed esplosiva per un cineasta del genere, anche se da qualche parte nella testa già scattava un campanello d’allarme a segnalare il rischio del politicamente corretto, del film ‘sociale’ costruito a tavolino per scioccare, indignare e soprattutto commuovere. Oggi, visione alla mano, con due interpreti in pole position per l’Oscar e un film già osannato da più parti, dispiace dover dire che stavolta Vallée è, sì, rientrato nei ranghi.

Non è necessariamente un male: dopotutto Dallas Buyers Club fa, neanche a dirlo, il suo dovere: al servizio del racconto di denuncia, dei suoi personaggi straziati (non manca una volitiva dottoressa – la Garner – buona, per par condicio), a seguire il passo lento che conduce all’illuminazione e alla scoperta di un nuovo, sconcertante mondo da parte di Ron Woodword, che del texano doc ha tutto l’armamentario negativo. Sex-addicted, omofobo, ex tossico, scontroso e sprezzante prima di tutto verso quei medici che, a disagio dietro le mascherine d’ordinanza, gli annunciano che dagli esami fatti per una casualità è risultato sieropositivo. Scontroso e sprezzante Ron lo è anche verso il trans Rayon che incontra in ospedale, da cui all’inizio si tiene a debita distanza, come se fosse infetto (e come se lui non fosse già abbastanza infettato), quando ancora non si capacita che sia capitato proprio a lui.

Scontroso e sprezzante, chiaramente, Woodword non lo rimane, o almeno, impara a catalizzare la sua ruvida ira contro chi davvero se la merita: quelle case farmaceutiche le quali, a un uomo che nel migliore dei casi sopravvivrà al massimo tre mesi, come agli altri malati di Aids, vietano delle cure che potrebbero davvero fare qualcosa, lasciandosi dietro una scia di morti per HIV all’epoca innumerevoli. È proprio con Rayon che Woodword sperimenta delle medicine alternative e insieme formano una struttura che quei farmaci li vende ad altrettanti sfortunati.

Per quanto diventi, a suo modo, un benefattore, Woodward non abbandona il suo asciutto e secco stare al mondo, mentre si aggrappa furiosamente alla vita (inutile dire che McConaughey, a partire dal fisico annullato fino allo sguardo graffiato e cupo, è spaventoso nel vero senso del termine): e proprio asciutto e secco è anche il film, che ha il pregio di asciugarsi e mantenere l’essenziale, sfuggendo la retorica come la peste, benché il buonismo aleggi sulla narrazione come un cappio al collo.

Dallas Buyers Club è, in sintesi, quello che ci si aspetta: ma è anche un prodotto che, fatta eccezione per una performance attoriale da disagio permanente (e qualche trauma per le fan più accanite di Leto) si dimentica presto. Che si percepisce simile a molti altri, nell’approccio e nella realizzazione. E da un autore che aveva saputo librarsi nell’inaspettato, spiace avere tra le mani una pellicola che, alla fine, non rimane. Alla fine, non sorprende. Alla fine, è ciò che doveva essere fin dalle prime battute di sceneggiatura. Che questo sia un bene o un male, a voi l’ardua sentenza.



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