Dopo aver riposto zucche e ragnatele vi è rimasta una certa voglia di brividi gotici? Comprensibile, finalmente il vero  autunno si affaccia alle nostre porte e le sue intemperie stagionali sono la condizione climatica ideale per ogni vera novella di sensazione che si rispetti. Se poi come Laura Delle Vedove avete trovato il gioco vittoriano del maestro del fantastico Guillermo Del Toro un po’ troppo innocente per i vostri gusti, allora forse vi sarete già lanciati alla ricerca di qualche lettura palliativa, scontrandovi con i soliti quattro titoli di Steven King (magari con la new entry del figlio Joe Hill) consigliati in litanie di post e liste simili a rosari da decenni a questa parte.

My name is Mary Katherine Blackwood. I am eighteen years old, and I live with my sister Constance. I have often thought that with any luck at all, I could have been born a werewolf, because the two middle fingers on both my hands are the same length, but I have had to be content with what I had. I dislike washing myself, and dogs, and noise. I like my sister Constance, and Richard Plantagenet, and Amanita phalloides, the death-cup mushroom. Everyone else in our family is dead.

Pescando nell’enorme bacino di scrittori e libri con il sigillo d’approvazione dello stesso re del terrore, se fossi in voi mi orienterei su Abbiamo sempre vissuto nel castello, uno dei romanzi più celebri della scrittrice statunitense Shirley Jackson, pubblicato in Italia da Adelphi. La scrittrice e giornalista statunitense morta nel 1965, è stata di recente al centro di una riscoperta da parte delle giovani generazioni d’oltreoceano, complice la popolarità dei suoi titoli nella nicchia sempre più rilevante dei booktubers (ovvero gli youtubers con canali dedicati a libri e letture).
Shirley Jackson sta tornando sulla cresta dell’onda dopo decenni in cui si era limitata a comparire qua e là come fonte illustre d’ispirazione per firme quali Steven King, appunto, e Richard Matheson. Ora invece comincia ad avere parecchi estimatori al di fuori dei lettori di genere anche in Italia. Se il suo scritto più famoso, il racconto breve La lotteria, non ha mai subito cali di popolarità negli Stati Uniti (dove è considerato un piccolo classico del colpo di scena finale irrinunciabile), l’interesse dei lettori adesso si sta spostando sul resto della sua produzione, costituita principalmente da storie misteriose, dai contorni sinistri e dai toni horror, anche se prettamente psicologici.

Torniamo quindi ai manieri misteriosi del titolo, perché al centro di Abbiamo sempre vissuto nel castello (pubblicato nel 1962) c’è proprio una casa temuta dagli abitanti del vicino villaggio, in progressivo stato d’abbandono, con l’edera che pian piano conquista la facciata e con i turpi delitti che l’hanno resa celebre ancora vividi nella memoria del vicinato.
Il castello in questione è tale solo agli occhi della protagonista, Mary Katherine “Merricat”, la vostra misteriosa, selvaggia e ambigua guida ai segreti della famiglia Balckwood e della loro dimora. Attraverso il suo sguardo ingenuo ma tagliente imparerete a conoscere vezzi e virtù sia dei parenti ancora in vita, l’amata sorella maggiore Costance e l’anziano zio Julian, sia dei restanti familiari, scomparsi anni addietro in un tragico incidente.
Merricat è un narratore tanto inaffidabile quanto affascinante, la cui personalità indomabile e selvaggia contribuisce a mantenere l’intero romanzo all’interno di una bolla sospesa nel tempo e nello spazio, come se i confini del giardino e della casa si trovassero all’interno di un’eternità immutabile, cristallizzata in una consuetudine familiare dolcissima ma in perenne tensione. Proprio il tentativo del mondo (e degli adulti) d’irrompere nell’equilibrio enigmatico di dolce affezione tra le due sorelle genera la crisi drammatica che vede per protagonisti la casa, i segreti custoditi al suo interno e una visione finalmente più definita della sfuggente Merricat prendere forma agli occhi del lettore.

cover

Come in buona parte della produzione di Shirley Jackson, a regnare sui confini rigidamente limitati del mondo dei Blackwood e sulle misteriose regole che ne scandiscono le giornate, è una nettissima sensazione di diversità. Dentro e fuori dalla bolla, si toccano appena due mondi: l’atmosfera incantata della casa e del giardino dove girovaga Merricat e la concreta ostilità del villaggio, che la ragazza è costretta ad affrontare settimanalmente per rifornire la famiglia di cibo. La diversità è il filo conduttore di questo racconto sfuggente: la risoluta Merricat e la dolce Costance sono diverse, emarginate dal resto della comunità, temute e odiate. Ogni occasione di contatto con villaggio è una scintilla, una promessa di violenza sempre pronta ad esplodere. Eppure le due sorelle non hanno nessun tratto che giustifichi questo comportamento, e la loro stessa esistenza quotidiana, seppur percorsa da stranianti rituali (Merricat protegge la casa posizionato amuleti da lei confezionati, Costance è una maniacale donna di casa, profondamente legata al suo orto, alla sua cucina, ai suoi doveri casalinghi) è tutto fuorché esecrabile.

Non è una storia dai contorni precisi, anzi, i chiaroscuri sono ancora più sfumati dalla visione peculiare di Merricat, dalle sue reticenze e dal suo atteggiamento infantile. Quando finalmente “una persona normale” irrompe nel suo mondo, riusciamo a mettere insieme tutta una serie di allusioni sibillinamente disseminate dalla ragazza nel racconto, fino a formare un’immagine precisa, ma sempre incompleta, di cosa stia succedendo.
La rivelazione però non uccide la suspance che percorre a basso ma continuo voltaggio il romanzo, tutto il contrario. La casa dei Blackwood , anche quando teatro di atti terribili, non è mai una presenza oppressiva, anzi, diventa sempre più un rifugio da mondare dalle storture di un mondo oltre la soglia pronto ad avventarsi con la sua crudele realtà sulle ragazze.
In un gioco psicologico di minaccia e ricatto nascosti dietro la promessa di normalità, la grande casa si fa via via sempre più piccola, ma sono proprio i suoi confini sempre più netti e angusti a renderla l’unico luogo stabile, sicuro. L’unica stanza in cui l’illusione perfetta delle sorelle Blackwood, mortalmente ferita dallo scoppio della bolla, riesce a sopravvivere, fino a che la loro storia entra a far parte davvero di un’altro mondo, quello delle leggende suburbane della provincia statunitense. Secondo alcuni critici, questa sensazione sempre più euforica di felice oppressione in spazi angusti e rigidamente definiti è l’impronta narrativa lasciata da una grave forma di agorafobia di cui soffriva Shirley Jackson, l’elemento dissonante che rende anche il maniero più sinistro e angusto un desiderabile rifugio, perché è l’enorme vastità del fuori, l’incriminante pervasività del vuoto che inghiotte ogni spazio interno definito il vero luogo da brivido.

Considerato il capolavoro dell’autrice, We Have Always Lived in the Castle è un libro che concede risposte con parsimonia, ma regala con grande generosità atmosfere sognanti e psicologie sinistre, oltre a una grande casa che trasuda a poco a poco i suoi segreti più inconfessabili.
Senza ricorrere a creature soprannaturali, riesce a rendere realistici e palpabili gli spettri che abitano la mente, rendendo le psicosi che la governano un rifugio dalla normalità del brutale mondo reale, più crudele che mai.

9780141191454

Con le sue 182 pagine di decadenti misteri, Abbiamo sempre vissuto nel castello è il modo migliore di fare la conoscenza di una delle gran dame del gotico statunitense, Shirley Jackson. E come tutte le case stregate, dopo il primo passo proibito oltre la soglia, non si può resistere all’irresistibile impulso di tornare sul luogo del delitto, alla ricerca di nuovi brividi di una delle regine del misterioso statunitense.



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2 Comments

  1. Quando ho visto comparire questo articolo, ho pensato a una felice coincidenza, dato che avevo appena iniziato a leggere il libro della Jackson. Non ne sapevo molto, non ho voluto saperne molto, se non prima di arrivare all’ultima pagina.
    Che dire, condivido gran parte delle considerazioni fatte, in particolare quella sul mondo reale che cerca in ogni modo di inserirsi nel fragile equilibrio tenuto su dalle due sorelle, che a quel mondo vogliono sfuggire.
    Il mondo esterno e il castello sono inconciliabili, entrambi provano inquietitudine nei confronti dell’altro, il primo però cerca di assorbire l’altro, di normalizzarlo.
    Beh, per me è decisamente promosso e conto di leggere altro dell’autrice.
    Grazie per l’articolo!

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