Prima di avventurarci in una recensione quantomeno comprensibile, è necessario formulare una premessa. In ogni film esistono due ordini di spazio: lo spazio diegetico, quello che offre uno scorcio della realtà raccontata nel film, dall’impatto informativo, che ci parla del dove e del quando (la cosiddetta “ambientazione”); e lo spazio extradiegetico, quello che (attraverso la regia) restituisce del reale una costruzione virtuale e simbolica, di natura espressiva, che ci informa sul come e il perché. La differenza si afferra più semplicemente se si pensa alla musica.

Quella diegetica, ascoltata anche dai personaggi, fa parte della loro realtà e in quanto tale va a sommarsi a tutte quelle informazioni che ci dicono qualcosa sul mondo che essi abitano, mentre la musica extradiegetica esula quella dimensione per comunicare esclusivamente con lo spettatore e connettersi direttamente con la sua sfera uditiva ed emotiva. Diversamente dal sonoro, lo spazio è tarato sullo sguardo e si misura con la distanza (di campo e di piano), il taglio e l’angolazione dell’inquadratura e gli effetti fotografici (colore, saturazione, illuminazione etc..). Solitamente i film di genere mantengono con lo spazio extradiegetico un rapporto più stretto e incisivo, talvolta arrivando addirittura a tradire quello diegetico. Il dove e il quando risultano meno strutturati e rilevanti di quanto non lo siano il come e il perché, e appare abbastanza naturale se realizziamo che al film di genere interessa molto di più riferire sensazioni e sentimenti soggettivi che indicazioni sulla realtà oggettiva.

In questo senso il film Suspiria (Dario Argento, 1977) può essere considerato un racconto quasi completamente allestito nello spazio extradiegetico, in cui la Friburgo di fine anni Settanta rappresenta solo una contingenza, un’informazione accessoria, e l’accademia di danza un non-luogo, piuttosto un incubo, narrato com’è tra scorci e colori ipnotici ed epilettici che nulla ci vogliono dire sulla realtà tedesca degli anni Settanta.

Diverso il discorso per il Suspiria (2018) di Luca Guadagnino che, nel proporre il suo remake revisionista, sembra voler restituire all’ambientazione una dignità storica, spostando la vicenda non solo dal presente al passato e dalla periferica Friburgo alla centralissima Berlino, ma reintegrando un tangibile e quasi privo di mistero spazio diegetico, utile ad accogliere il contesto (le conseguenze dell’olocausto, gli atti terroristici della sinistra estremista, l’avanzata femminista e la psicanalisi), sperimentando un alchimia tra reale e virtuale, tra evento certo ed evocazione fantasiosa. Diversamente dall’opera argentiana – che conferma, attraverso una serie di scelte audiovideo peculiari, la sua estrema coerenza e compiutezza – il Suspiria di Guadagnino appare molto più complesso da organizzare, determinato com’è nel voler conciliare il cinema di genere con l’indagine (autoriale) di luoghi storici e fenomeni socioculturali, che sulle prime sembrerebbero poco aggiungere all’ordito di genere che intesse l’opera originaria. “Sembrerebbe”, perché in realtà l’idea di Guadagnino non è priva di significato e l’intenzione all’interno del film è, a momenti, riconoscibile.

Quello che non funziona, semmai, è l’articolazione del discorso e la scelta e gestione degli spazi, che appaiono incerti sulla possibilità di ospitare e lasciare libera l’azione o se invece siano più inclini a deformarla e confinarla nel simbolico. Il doppio statuto comunicativo del film rende la storia di Suspiria una vicenda a tratti realistica e raffazzonata, e a tratti surreale e suggestiva, ma nell’insieme poco compiuta. Sono senz’altro funzionali le sequenze dichiaratamente horror, momenti che Guadagnino si ritaglia per suggerire e scioccare lo spettatore, meno incisivi sono i tentativi di razionalizzare l’orrore, spiegare il male e ricondurlo a fatti storici e/o ideologie – specie quelli in cui fanno capolino i flashback sull’infanzia di Susie Bannion con il côté di precetti mennoniti, e quelli in cui viene pedinato il Dr. Jozef Klemperer alla ricerca di un freudiano senso di colpa, che rappresentano meri rinforzi alla tesi concettuale del film, deviazioni narrative posticce e piuttosto banalizzanti.

Insomma, quello che manca al Suspiria del 2018 è, prima di tutto, un equilibrio. L’equilibrio tra la tesi perseguita (il male che si riproduce per partenogenesi di cui gli uomini sono vittime consapevoli o inconsapevoli, ma non artefici) e la successione di performance autonome (tutte le sessioni di danza e il sabba finale), dove la prima risulta come un didascalico e fiacco resoconto e la seconda rappresenta il cuore pulsante del film. All’ambiziosa narrazione fa difetto – con buona pace di David Kajganich – una sceneggiatura del tutto inadeguata, incapace di far viaggiare di pari passo le manifestazioni del male (eloquenti e incisive), e le pontificazioni sul male (confuse e castrate), queste ultime abortite da uno spazio diegetico ridotto al minimo, incapace di ospitare qualunque altra cosa che non possa essere immediatamente esperita, preferibilmente col corpo…



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