Il momento in cui tirare le somme cade ritualmente tra gli ultimi giorni dell’anno e i primi del nuovo, quando con elenchi e liste per categorie tentiamo di sentirci retroattivamente padroni del nostro destino cercando di mettere ordine, di catalogare e sistemare le voci di bilancio di tutto quello che afferisce a quell’ineffabile esperienza che proviamo a definire e confinare semanticamente con il termine “vita”.
In questo articolo abbiamo provato a impegnarci in qualcosa di un po’ diverso: ciascuno di noi della redazione di Players è stato chiamato a scegliere un’unica opera che rappresentasse il proprio 2021, un libro, una serie, un film, un anime… e non necessariamente qualcosa che abbiamo ritenuto il meglio in assoluto, il primo classificato di una eventuale lista, ma un elemento che ha risuonato particolarmente con il nostro stato d’animo e ci ha fatto sentire in qualche modo compresi, rappresentati.
Mara – Bo Burnham: Inside
In occasione dell’uscita di “30″ Spotify ha deciso di nascondere la modalità shuffle su richiesta di Adele. La cantautrice ha così motivato la decisione “…our art tells a story and our stories should be listened to as we intended“. Da qui l’inevitabile spaccatura verso la quale ci spinge l’interazione via social: “Ascolto come mi pare” vs “Un’opera va fruita così come è stata pensata”. Vi risparmio il mettervi a parte della mia modalità di ascolto – non vorrei indurre incubi nei più sensibili di voi – ma nel caso di Inside sono stata contenta di essermi fatta prendere per mano da Bo Burnham e aver lasciato che lui conducesse le danze. Naturalmente lo speciale di Netflix si presta molto più di un album con sole tracce musicali alla fruizione dall’inizio alla fine passando per una linea retta, ma nonostante il lavoro di Burnham sia godibile anche saltando da un video/brano all’altro, in questo caso seguire l’ordine scelto dall’autore è premiante.
Inside è lo speciale scritto, diretto, interpretato e montato da Burnham, tutto da sé, durante il 2020. La pandemia ci ha chiuso in casa, ha ristretto i nostri orizzonti, in molti casi inaridito il nostro animo, ma soprattutto ci ha lasciato in balìa dei social e della nostra vita online che sono diventati fuga e prigionìa al tempo stesso. Inside esprime questa condizione: Burnham nella sua stanza è raggiunto dal mondo che viene scomposto, analizzato, rielaborato e satirizzato, ma anche nuovamente umanizzato attraverso il talento da artista che sa aiutarci a trovare il nostro posto nel mondo, e quel posto è sull’orlo del proverbiale precipizio. Non un bel posto in cui stare, ma qualcuno doveva pur assumersi la responsabilità di dircelo.
Inside è divertentissimo, geniale, trascinante nella prima parte in cui si contano tanti di quei momenti in cui il talento da musicista e cantautore si sposa con la brillante vena comica, che a un certo punto si è amareggiati per il cambio di passo. Non a caso alcuni hanno lasciato a metà, o giudicato la seconda parte inferiore. Ma Sexting, White Woman’s Instagram, Comedy, l’intermezzo che sbeffeggia Bezos, costituiscono il viatico verso quello che Burnham chiama “That funny feeeling” in cui tant*, a ragione, hanno visto un chiaro riferimento alla depressione o alla salute mentale compromessa, temi dichiarati dello speciale. Sono d’accordo, ovviamente, ma per me that funny feeling si riferisce alla fine del mondo.
Quel sentimento bizzarro è proprio quella sensazione che tutto sia lì lì per finire, le occasioni di gioia, il trovare un senso alle nostre giornate, la fine dell’idea che riusciremo ancora se non altro a fingere, che qualcosa importi davvero e che il meglio sia già passato e non abbiamo saputo cosa farcene, e già da ben prima che fossimo a caccia di setting instagrammabili e di content da consumare. E poi, sì, anche la fine del mondo in senso letterale, come viene fuori dalla meravigliosa All Eyes On Me, e dal senso generale dell’opera che evoca, tra le varie tematiche, anche il cambiamento climatico.
Inside mi ha fatta sentire privilegiata per aver avuto l’opportunità di assistere a una crescita costante e coerente di un grande talento che qui ha raggiunto probabilmente il suo massimo, e allo stesso tempo mi ha fatta sentire come dopo un lunghissimo pianto: esausta, ma più leggera. (Ho parlato di Inside anche qui).
Claudio – Say No! More
Ci sono poche altre parole che hanno il sapore catartico di un “NO”. In un anno in cui ho (e abbiamo) dovuto dire di no a un sacco di situazioni per cause di forza maggiore o per senso di responsabilità, aver imparato a dire no a ciò che davvero non mi va è stato uno dei miglioramenti più sensibili che potessi regalarmi.
Possibile che parte di questo percorso dipenda da un videogioco (e non solo dalla terapista a cui devolvo parte del mio stipendio mensile)? Per quanto riguarda l’ambito lavorativo, non mi sento di escluderlo. Say NO! More è il primo (e unico) no-playing game, per definizione dei suoi stessi sviluppatori, i tedeschi di Studio Fizbin. Il che non significa che non si giochi (anche se, come tutti i giochi esperienzali prevede ben poco gameplay), ma che mette il giocatore nei panni di un impiegato che si aggira per l’ufficio rispondendo sonanti NO a tutte le richieste assurde di capi e colleghi. Ahh, solo a ripensarci riesco subito a sentire quella sensazione di benessere nell’aria.
Arianna – Don’t Look Up
Se non lo avessi recuperato in extremis, rimandando la visione a un sonnecchiante pomeriggio di inizio anno nuovo, la mia scelta tra quelli che avevo finora considerato i migliori film del 2021 sarebbe probabilmente ricaduta su Il Potere del Cane (The Power of the Dog, Jane Campion, 2021), pellicola raffinatissima che mette in scena, a cavallo di un’importante congiuntura storica – tra la fine della Grande Guerra e i Roaring Twenties – il passaggio di consegne tra una cultura maschilista repressiva, rurale e istintuale, e una egemonica, capitalista e cerebrale, armoniosamente contrapposte e frapposte attraverso i codici aperti e luminosi del western e quelli chiusi e cupi del thriller psicologico. Insomma, un bell’esempio di cinema che guarda al passato e parla al presente, che combina l’allusività del dire con la responsività del fare, che indaga le criticità del dover essere e del voler essere.
E invece, il film che mi tocca citare in questo breve excursus è il recente (in sala da qualche settimana e su Netflix da qualche giorno) Don’t Look Up (Adam McKay, 2021), opera di un regista che ammetto di non amare particolarmente ma che, è doveroso sottolinearlo, con il suo ultimo lavoro è riuscito a esprimere alla perfezione quel disagio tipico della contemporaneità mostrandone le diverse e contrastanti sfaccettature, sia attraverso la concertazione di interpreti/personaggi e situazioni assolutamente credibili pur nella loro assurdità, sia mediante una costruzione scomposta in cui si alternano e intersecano atmosfere e punti di vista differenti, restituendo una realtà ipermediata e caleidoscopica in cui è facile perdere di vista le priorità (individuali e collettive), il valore esperienziale e la misura dell’umanità.
Ben più del suo precursore Idiocracy (Mike Judge, 2006), che spostava nel futuro le sorti di un pianeta ereditato da una civiltà regredita, proponendone un ritratto demenziale e una chiave di lettura beffarda, Don’t Look Up resta ancorato al presente esplorando, senza troppe deformazioni di genere – ma appunto attraverso una generalizzata “deflagrazione culturale” – la stringente attualità, il venuto meno senso di autoconservazione, il mancato interesse per un progresso che non sia di mera convenienza materiale e una progettualità condivisa. Adam McKay affronta con sprezzante sconforto – e non con urgente intento satirico – la deriva della nostra società che, di fronte all’imminente pericolo di un’estinzione, preferisce crogiolarsi in un’anestetizzata acquiescenza, suggerendoci amaramente che anche se non tutti sono perduti, ormai tutto sembra irrimediabilmente perduto.
Alessandro – Il potere del cane
Un autentico western di affetti e impulsi nel Montana degli anni Venti, quando le automobili hanno ormai sostituito le carrozze. Uno dei primi film passati alla Mostra del Cinema di Venezia 2021, dove ha vinto il Leone d’argento per la regia, in un settembre che ci regalava l’illusione (pur debole) di una pandemia in declino.
Il potere del cane acquistava sugli schermi del festival un respiro decisamente più ampio di quello che oggi può dargli lo schermo di un pc, ma anche la visione domestica dell’ultimo film di Jane Campion si rivela un’esperienza ipnotica. La regista neozelandese, dopo gli sguardi femminili di Un angelo alla mia tavola, Lezioni di piano, Ritratto di signora o In the Cut, fa risuonare emozioni più maschili: quelle dei fratelli Phil (Cumberbatch) e George (Plemons), che mandano avanti il florido ranch di famiglia, e quelle di Peter (Smit-McPhee), l’efebico figlio della vedova (Dunst) che George sposa.
Un bellissimo gioco di contrasti di personalità e di dettagli, scritto magnificamente e diretto ancora meglio, che dilata i tempi del racconto e gli spazi in cui si svolge. Quasi stordente il climax elettrico che precede l’epilogo, il cui senso è affidato alla condivisione di una sigaretta. Il potere del cane è un film che sa risuonare dopo la visione: non ha il potere consolatorio di cui forse avremmo bisogno in chiusura di questo nuovo anno difficile ma, per chi come noi l’ha visto a Venezia, ha ancora il sapore di un mix fatto di coraggio, speranza fragile e malinconia. (Ho parlato del Potere del Cane anche qui).
Flavio – Mostri
Il mio 2021 è stato, credetemi, mostruoso. Mostruoso nel bene e nel male, beninteso: non mi va di fare il lagnoso. Ho letto cose, ho visto gente, ho perso amici, ho corso in bici. Enormi delusioni e soddisfazioni sparute si sono susseguite senza un senso apparente. Poi beh, c’è il casino globale che ci coinvolge tutti quanti, ovviamente. E quindi, quando mi è stato chiesto di buttar giù due righe su un’opera, una qualsiasi, che avesse segnato il mio 2021, mi è venuto naturale pensare a Mostri.
35 anni, tanti sono serviti a Barry Windsor-Smith per mettere a fuoco un soggetto che rilegge con uno sguardo cinico, aspro, spesso grottesco, la cultura toccataci in eredità, con i suoi simboli, i suoi ideali, i nemici e gli eroi. Le 368 pagine in bianco e nero si spiegano su un arco narrativo dove assistiamo alla dissertazione quasi scientifica sulla trasmissibilità del male. Le colpe dei padri ricadono sui figli e diffondono un contagio trasversale che attraversa corpi, società, territori, ideologie, e genera, ovunque passi, l’orrore. Il sogno americano? Un mucchio di cazzate impacchettate con contorno di bugie sorrette da disparità sociali e ingiustizie. L’establishment? Pupazzi manovrati da un nugolo di nazisti scampati a Norimberga. I supereroi? Un ammasso di cellule tumorali sfuggite al controllo dei creatori (Frankenstein, is that you?). Il focolare domestico? Persino quello può trasformarsi nel peggiore degli incubi se esposto a radiazioni venefiche.
Gli stessi cattivi non sono che imbecilli assetati di potere, o fantocci che eseguono gli ordini dei superiori, omuncoli senza umanità che fanno il male per il male. La domanda cruciale, a questo punto, è chi sono i mostri? Cosa sono i mostri? La risposta probabilmente si trova nello specchio. Come dite? Una frase fatta? Beh, sì, in effetti. Allora, già che ci siamo, permettetemene un’altra: un buon fumetto si lascia leggere, ma il capolavoro fa il contrario: è lui che legge te e il tuo mondo. E dunque la risposta al quesito è che, se si cerca bene, tutti abbiamo in noi stessi anche solo una stilla di mostruosità e basta molto poco a perché questa emerga. Si può fermare il male, certo; voglio dire, alla fine succede, perché deve succedere, perché tutto è una ruota dove ogni cosa è collegata a un’altra come i raggi a un mozzo, e alla fine tutto sta in equilibrio.
Ogni raggio, ogni filo è un elemento fondamentale, sia nel bene che nel male. Poi c’è chi di questa ruota ha coscienza e può intuirne la composizione. A costoro l’autore riserva un ruolo medianico, ossia di guida verso quei passaggi che il protagonista, e con lui il lettore, devono compiere nella diegesi dell’opera. È questo infatti l’espediente narrativo che più mi lascia di stucco, rintronato come sono da promesse di facili eccitazioni, dalla tessitura di tensioni che si risolvono in un climax spettacolare. Ebbene, qui non c’è niente del genere. Le cose semplicemente vanno dove/come devono andare, imitando effettivamente la vita nel suo movimento circolare. E forse, in fin dei conti, va bene così. Sì, ora che lo sto mettendo per iscritto, me ne sto convincendo appieno: è giusto così.
Riuscire a dare una forma coerente a un lavoro dalla gestazione tanto lunga non è certo una cosa semplice, e magari un lettore un po’ pignolo potrebbe notare qualche sbavatura qui, un cambio di registro azzardato là, un utilizzo un po’ goffo dell’ironia in altri frangenti. Ma, per quanto mi riguarda, il valore di quest’opera va al di là delle sue piccole (e comunque opinabili) imperfezioni. “Mostri” è anche una rilettura critica e disincantata — posso dire da vecchio? (scusa Barry, non è un’offesa) — di tutta una vita artistica, dalla cotta per Kirby agli X-Men, passando per Weapon X e l’Hulk mai completato, oltre al fatto che, considerati i tempi di lavorazione, potrebbe rivelarsi come il lascito artistico di un autore giunto alla meta della sua ricerca di una libertà espressiva che ha segnato la sua parabola da superstar del comic-dom ad autore indipendente. Anche per questo motivo, Mostri è da considerarsi come un’opera irrinunciabile.
Andrea – Strappare Lungo i Bordi
A un certo punto dell’avventura animata di Zerocalcare, Strappare Lungo i Bordi – per distacco la migliore serie italiana dell’anno – in un momento secondo me perfetto, inizia questa canzone. È di Fauve, un collettivo artistico francese di musica e videografia fondato nel 2010 a Parigi. Il brano è stato composto nel 2013 ma è la cosa “più 2021” che abbia sentito quest’anno… (se non parlate o non capite il francese, in rete ci sono traduzioni affidabili).
TESTO
[Intro]Mais arrête de me dire de ne pas m’énerver putain
Ouais ça sert à rien, ouais
Ouais ça sert à rien, mais ça fait du bien, tu vois
Surtout qu’on sait faire que ça, gueuler
[Couplet 1]Tu me dis “je vais reprendre mon train tout à l’heure et je sais pas quand on va se revoir. “
Moi j’ai beau essayer de te rassurer
De te promettre qu’il faut pas que tu t’en fasses
Tu me répètes “on sait jamais”
Alors non, évidemment, on sait jamais
On sait jamais ce que la prochaine nuit nous réserve, mais toutes les autres non plus si tu vas par là
Parce qu’après tout y’en a bien qui s’endorment dans leurs baignoires ou avec une clope allumée
C’est sûr que personne ne peut savoir de quoi demain sera fait
Il y a tellement d’histoires, tiens rien que la fameuse légende urbaine du gars qui sort s’acheter des clopes et qui se prend une caisse en bas de chez lui parce qu’il regarde son téléphone
Tu vois, moi aussi, j’ai peur, j’ai peur en permanence qu’on m’annonce une catastrophe ou qu’on m’appelle des urgences
Mais on a la chance d’être ensemble, tous les deux, de s’être trouvés, c’est déjà prodigieux
[Refrain]Alors
Haut les cœurs, haut les cœurs
On peut encore se parler, se toucher, se voir
Haut les cœurs (x3)
Il faut se dire des belles choses, qu’on gardera pour plus tard
Haut les cœurs, haut les cœurs, on peut encore se parler, se toucher, se voir, haut les cœurs (x3)
Approche-toi de moi, sers-moi fort, avant qu’on se sépare, avant qu’on se sépare
[Couplet 2]Je te connais comme si je t’avais fait
Et je sais bien qu’en ce moment, ça marche pas fort
Tu te réveilles chaque matin et tu t’endors tous les soirs en redoutant les sales nouvelles et les coups de putes potentiels de la vie
Tu m’imagines déjà parti en fumée, fracassé la nuque pliée à cause d’un montant de portière de voiture
Mais ça peut pas marcher comme ça
De toute façon, je compte pas me laisser faire aussi facilement, je te rassure
Alors oui, peut être, peut être qu’un jour, je finirais au 15/20 à cause d’un retour de flamme d’enfoiré
Ou que toi, tu claqueras d’un AVC à 40 ans sans même avoir pris le temps de me dire au revoir correctement
Tu vois, moi aussi, j’ai peur, j’ai peur en permanence qu’on m’annonce une catastrophe ou qu’on m’appelle des urgences
Mais on a la chance d’être ensemble, de s’être trouvés tous les deux, c’est déjà prodigieux
[Refrain]
[Couplet 3]Faut pas attendre
Faut pas attendre qu’il soit trop tard pour dire qu’on tient aux autres, qu’on a besoin d’eux
Qu’on plongerait devant des balles rien que pour eux, qu’on sera toujours là
Faut se dire la vérité, faut oser s’avouer les choses importantes
Faut se dire les mots qui font barrage, qui donnent du courage quand il y a du blizzard
Et toi qui nous voit déjà vieux
Avec des machins qui nous sortent de partout, des tuyaux des aiguilles
Tu nous imagines en train de bouffer nos gencives, nos jambes nous portent plus
On perd la tête et on signe des papelards qu’on comprend pas mais, moi aussi, j’ai l’impression d’avoir grandi trop tard, d’avoir raté trop de choses déjà
Esther Comar, la sortie du collège Saint-Exupery, toutes ces conneries, c’était pas hier après-midi, t’es sûre ?
Et pourtant, on a encore tellement d’histoires pas croyables à vivre, si tu savais, mais je te le dis, des histoires que tu peux même pas imaginer qui nous emporteront très loin, tellement loin en mode fusée
Tu vois, moi aussi j’ai peur, j’ai peur en permanence qu’on m’annonce une catastrophe ou qu’on m’appelle des urgences
Mais on a la chance d’être ensemble, de s’être trouvés tous les deux, c’est déjà prodigieux
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