A leggere le numerose recensioni e i tanti commenti apparsi in rete, la quinta stagione della serie antologica Black Mirror pare non stia riscuotendo il successo previsto e sospirato, forte dei (più o meno) riusciti episodi precedenti che, in questi otto anni, hanno spalancato le bocche degli spettatori più difficili e disillusi. La critica più gettonata sembra essere quella di una generale povertà di contenuti e un appiattimento della portata innovativa delle trovate narrative che, nel tempo, avrebbero sempre meno precorso e perlopiù rincorso il progresso e i timori ad esso associati.

Nulla di interessante, dunque, sul fronte dell’innovazione, sia per quanto riguarda l’ideazione di bizzarri e inquietanti congegni tecnologici, sia per ciò che concerne le trasformazioni psichico-sociali di un mondo sempre più complesso e ingestibile. Il riflesso di Black Mirror sembra essersi fermato poco più in là del nostro sguardo, incapace di andare oltre la nostra sagoma nitida, nota, ovvia. Se la serie si fosse occupata di superare l’ostacolo, magari spingendosi verso l’irrazionale e l’ignoto, forse ci sarebbe stato margine per tentare una svolta narrativa e di genere – che la formula antologica avrebbe saputo percorrere – illustrando il futuro con meno tesi (scientifiche) e più ipotesi (fantastiche), sulla scia de Ai Confini della Realtà e come già sperimentato con San Junipero o Black Museum. Invece, fermandosi a un passo da noi, dal nostro sguardo poco lungimirante, sono subito balzate agli occhi la penuria di idee e la sommaria recessione immaginifica.

Per far fronte alla crisi creativa, gli autori hanno ripiegato sul più classico degli espedienti narrativi: passare da uno statuto prevalentemente di genere – in cui far risaltare situazioni ed eventi di natura fantascientifica – a un assetto perlopiù drammatico – dove invece hanno assunto più peso i protagonisti e il loro background esistenziale, magari incarnati da figure di spicco e celebrità-cassa di risonanza. La fantascienza, così, da sempre protagonista indiscussa in Black Mirror, capace di oscurare volti e storie individuali con la sua aura eversiva, è divenuta accessoria, scalzata dall’avvento di personaggi/personalità ingombranti. Se questi cambiamenti, già dalla terza stagione, avevano in parte scalfito la “missione ammonitrice” della serie, in questa ultima stagione l’effetto è stato addirittura invalidante, con tre episodi di grande intrattenimento, memorabilia ma davvero poca sostanza. Se ciò è valido per Striking Vipers e Smithereens, è senz’altro vero per Rachel, Jack and Ashley Too.

L’episodio, che vede protagonista – non solo per interposto avatar tecnologico – la popstar Miley Cyrus, è un racconto poco originale sugli effetti collaterali del divismo e l’incompatibilità della crescita, del cambiamento e della molteplicità con il percorso di consacrazione di un’icona. La missione di salvataggio a opera delle due adolescenti Rachel e Jack, sorelle tanto diverse quanto uguali nel perseguire il sogno di una realizzazione personale, non sembra aggiungere nulla alla parabola discendente della popstar Ashley O, ormai sempre più lontana dall’idea stereotipata di una zia manager avida e arrivista che pensa bene di sostituirla con una generazione di tamagotchi evoluti a lei ispirati. Se il trick metatestuale “Miley Cyrus a misura di Ashley O a misura dell’avatar cibernetico” può risultare simpatico e curioso, specie poi quando il rapporto si inverte e il robot assume l’identità della vera Ashley che mima la spregiudicatezza della vera Cyrus – che si esibisce nel finale con una cover coinvolgente di Head Like a Hole dei Nine Inch Nails – purtroppo l’episodio non sembra far leva in maniera autenticamente inquietante alle dinamiche di “sostituzione etica” e “cultura della positività” accennate nell’episodio, risolvendosi in un divertissement poco ispirato e ben lontano dalle fatalità distopiche con cui Black Mirror ci aveva tanto allarmati…



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