Trovate la prima parte di questo speciale QUI e la seconda parte QUI.

Doshin the Giant (Param, Nintendo)

Doshin the Giant è un “God Game” molto sui generis, in cui il dio nelle mani del giocatore non è una divinità lontana, che interagisce con i popoli del mondo in modo distaccato e distante, ma una creatura vera e propria, un’entità fisica che alle leggi fisiche, di conseguenza, risponde. In pratica si vestono gli scomodi panni di un gigante giallo che cerca di popolare un insieme di isole dall’aspetto sempre mutevole, collocando nello spazio a disposizione esseri umani distinti in base al colore del vestiario (rosso, giallo, blu e verde).

Questo per dare vita a tutte le civiltà possibili, grazie alla mescolanza dei suddetti colori. Ma le proprietà del “gigante gentile” non si esauriscono nella possibilità di trasportare uomini da una zona all’altra del mondo di gioco. Una delle caratteristiche “ambientali” più interessanti del titolo è quella che permette al protagonista di deformare il terreno abbassando o alzando il suolo, permettendo anche di creare laghi artificiali, mari o montagne. Anche gli alberi possono essere spostati, per creare giardini e foreste, che non rivestono certo un ruolo secondario nell’economia di gioco: la razza umana per costruire necessita di spazio verde, che si forma solo in presenza di piante.

doshin the giant

Mano a mano che il gigante compie azioni “buone”, nei confronti degli esseri umani, guadagna cuori che lo fanno crescere in statura, tanto da riempire tutto lo schermo semplicemente con i piedi. Ma i problemi sono dietro l’angolo, perché governare un essere enorme in spazi ristretti comporta la perdita di vite umane, la distruzione di ciò che si era amorevolmente edificato e quindi un accumulo di odio da parte degli abitanti dell’arcipelago. E qui si svela l’altra “faccia” del gioco, quella della crudeltà: quando gli esseri umani battono la fiacca, quando muovono guerra contro gli altri popoli, o quando, in generale, una civiltà risulti essere inutile, al giocatore è data la possibilità di radere al suolo interi villaggi e città, trasformandosi in un demone distruttore.

Anche questo, come prevedibile, porterà all’accumulo di odio e non di amore, facendo ugualmente crescere il gigante: si nota subito, giocando, quanto sia più facile e veloce accumulare rancore piuttosto che benevolenza. E tutto questo meccanismo non è fine a se stesso, poiché influenza i monumenti che gli uomini andranno ad edificare in onore (o in disonore) alla divinità. In pratica l’interazione con l’ambiente qui si avvera in un “essere superiore” che ha potere di vita e di morte sui minuscoli, eppure fondamentali, esseri umani.

Little Inferno (Tomorrow Corporation)

Neanche a farlo apposta, in ciascuna delle due precedenti parti di questo approfondimento ho dato spazio ad un titolo per il quale è possibile parlare di un’interazione basata sulla ripetizione ossessiva, quasi compulsiva, di gesti e azioni. È questo il caso del buon Little Inferno, gioco che mette alla berlina l’isteria collettiva dell’acquisto e del consumo, in un contesto sociale sempre meno “sociale”, in cui ognuno si rifugia tra quattro minuscole mura, cercando una via di fuga dal freddo e dal gelo quotidiano dei rapporti umani.

Little Inferno Testo

E mentre nevica, nevica e ancora nevica, a noi viene richiesto di mantenerci ben caldi, bruciando in un caminetto tutti i nostri giocattoli, dentro i quali troveremo denaro per acquistare altri giocattoli da bruciare, e così via, in un ciclo infinito. Le due azioni fondamentali sono quelle della “spesa” virtuale e, appunto, dell’incenerimento. L’unico punto di vista sul mondo, l’unico ambiente in cui è dato agire ed interagire è quello di una prospettiva centrale e ravvicinata sul caminetto in questione. Consumare per vivere, o forse vivere per consumare. Ma tra una lettera e un messaggio promozionale da parte della Tomorrow Corporation (ironicamente anche il nome scelto dagli sviluppatori!) si aprono spiragli di una comunicazione con l’esterno, speranze per un nuovo domani, in attesa per dirla con la Bandabardò, del “ritorno del sole”.

Conclusioni

Operare una scelta significa sempre escludere tanti, tantissimi altri titoli, alcuni dei quali anche molto meritevoli di attenzione. I giochi che ho voluto chiamare “ambientali” sono molti e molti si aggiungono a questo “modo” (forse meglio di “genere”) videoludico con il passare del tempo. Penso sia giusto dedicare loro almeno un elenco, e lasciare al lettore il compito di continuare questa avventura ludica, senza avere qui la pretesa di dare un giudizio di ordine estetico: The Novelist (Orthogonal Games), Dear Esther (thechineseroom), Dinner Date (Stout Games), Thirty Flights of Loving (Blendo Games), Hippocampal (freegamer) e molti lavori di Tale of Tales (The Endless Forest, Bientôt l’été, The Graveyard).

Ma quali conclusioni possiamo trarre da questo lungo discorso? Penso che l’insegnamento più importante sia il fatto che spesso questi giochi, definiti quotidianamente “strani”, “non-giochi”, “esperienze non ludiche”, offrono vere perle di gameplay, riportando il medium a una definizione essenziale del concetto “videogioco”. E di questa “specificità videoludica” abbiamo già avuto modo di parlare più e più volte. Dice tutto, a mio avviso, una frase di un approfondimento di Alessandra Coppa (in Arte e Videogames. Neoludica, edito da Skira), significativo già dal titolo scelto, Cyberluoghi. Spazi digitali nell’architettura dei videogiochi: “Un aspetto particolare del medium videoludico è la sua natura spaziale, ambientale, architettonica. La componente fondamentale degli spazi digitali è la possibilità di percorrerli, la navigabilità”. Mi sembra riassuma perfettamente quanto detto fino ad ora.

In funzione di ciò, possiamo dunque parlare di un videogioco “essenzializzato” o, ancora meglio, al “grado zero”? Direi proprio di sì. Come ricorda Luigi Weber, lo strutturalismo ci ha insegnato che anche il grado zero è “significante”. Con grado zero intendo qui l’uso del medium videoludico nelle sue caratteristiche “base”, al fine di esplorarne tutti i sentieri possibili, di sperimentarne nuove vie comunicative e interattive. Dunque un “videogioco povero”, parafrasando Grotowski. Ma bisogna fare attenzione, perché la “povertà” numerica dei mezzi utilizzati non significa “miseria”, scarso valore, poca cura, ma consapevole scelta del “meno”, del poco, per dare quasi paradossalmente di più rispetto a molte produzioni tripla A che hanno poco o nulla da dire. Scriveva Schönberg nel 1924, a proposito delle Sei Bagatelle di Webern: “Si consideri quale sobrietà occorra per esprimersi con tanta concisione. Di ogni sguardo si può fare una poesia, di ogni sospiro un romanzo. Ma chiudere un romanzo in un sol gesto, una gioia in un unico respiro – una simile concentrazione è possibile solo in ragione inversa alla tendenza al sentimentalismo”. Semplicità, essenzialità delle meccaniche, per esplorare ancora meglio le possibilità offerte dal versatile medium videoludico. Vorrei chiudere con una riflessione di un altro maestro teatrale, Decroux: “Credo che un’arte sia tanto più ricca quanto più è povera di mezzi”.



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Gabriele Raimondi

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