C’è qualcosa di profondamente angosciante nell’ultimo lavoro di Charlie Kaufman, il film d’animazione realizzato in stop-motion – con la collaborazione di Duke Johnson – Anomalisa, una sensazione di minaccia che si instaura perlopiù a livello inconscio e che, man mano che il film procede, si trasforma in un autentico malessere. L’eleganza compositiva, la delicatezza dei temi, i toni pacati attraverso i quali viene presentata la condizione di Michael Stone, scrittore di manuali motivazionali giunto a Cincinnati per tenere una conferenza sulla gestione del servizio alla clientela, non impediscono allo spettatore di provare una sorta di diffidenza nei confronti di tutto ciò che appare sullo schermo. E sarebbe difficile comprendere il motivo di quella diffidenza e di quel sottile timore provato se il film non fornisse un utile suggerimento sul luogo d’ambientazione del film, un edificio che è anche e soprattutto una proiezione psichica del protagonista.

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Il lussuoso albergo che Michael sceglie per il suo soggiorno richiama, infatti, non solo Leopoldo Fregoli, il noto trasformista attivo a cavallo del Novecento, ma anche e soprattutto la sindrome a esso associata, rinominata “delirio di Fregoli”, un’allucinazione paranoide che porta chi ne è affetto a individuare dietro all’identità di chiunque il medesimo soggetto persecutorio. Se inizialmente si ha la sensazione di udire sempre la stessa voce uscire dalle labbra dei pochi personaggi in scena, successivamente, quando si comincia a osservare meglio i volti, se ne matura la certezza. Escludendo il protagonista, infatti, tutti i personaggi sembrano condividere gli stessi tratti del viso, assomigliando più ai manichini del crash-test che a esseri umani, e se la forma animata può, sulle prime, persuadere che si tratti di mera stilizzazione grafica, con l’entrata in scena di Lisa tutto comincia a essere più chiaro…

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Il pregio di Anomalisa non consiste nell’allestire il mistero e l’ambiguità su questo aspetto retorico della narrazione, e cioè sulla metafora che delinea un individuo non omologato alla ricerca di una compagna, come lui, diversa e unica, ma tende a spostare, in maniera subdola e rivelando un cinismo più spietato – siamo ben lontani dalle semplificazioni emotive di Inside Out – la caducità che caratterizza l’interesse per l’altro. Ce lo segnala non solo il primo incontro tra Michael e la ex fidanzata, la quale esprime più volte il disagio di essere cambiata – lei sostiene “più grassa”, “più brutta”, ma noi (come ora anche lui) la percepiamo drammaticamente simile a tutti gli altri, pure nella voce – ma anche la magnifica sequenza in cui Michael e Lisa fanno colazione, realizzata in un virtuale controluce, in cui la magia dell’incontro si appresta a svanire e il volto e la voce di Lisa cominciano a confondersi con quelli di chiunque altro.

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Il neologismo “Anomalisa”, allora, non si riferisce all’individuazione della tanto agognata diversità, la via d’uscita da una situazione di disagio e di solitudine che Michael intravede in Lisa, e non si tratta della fugace ma intensa storia d’amore tra due individui speciali, ma rinvia piuttosto al difetto di un processo costante (la vita), un’anomalia di variabile durata da celebrare e godere prima che tutto torni all’ordinaria monotonia. Certamente la forza del film di Kaufman risiede nella precisione dell’impuntura del dramma esistenziale sulla traccia techno-thriller, in cui sia la sequenza del sogno sia i riverberi fantascientifici gettano un’ombra sulle atmosfere tenere e appassionate della parte centrale, un ricamo che introduce lo spettatore in una situazione kafkiana amara e desolante, ma anche estremamente affascinante.



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