Due anni e mezzo per realizzarlo, due ore scarse per terminarlo. Un paradosso molto frequente nel mondo dei videogiochi attuale, specie quando si parla di indie games, calderone impazzito in cui vengono buttati titoli di ogni genere. Virginia, primo progetto dello studio Variable State, guidato da Jonathan Burroughs, rientra a pieno titolo nel filone dei giochi “narrativi”, in cui la storia ha un ruolo centrale (quando non assoluto) ed il gameplay è sostanzialmente inesistente. Per i più critici si tratta di “simulatori di passeggiate”, per altri di un modo diverso e intrigante di raccontare delle storie.

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Virginia, fin dalle prime battute, strizza l’occhio a Twin Peaks e all’immaginario cine-musicale degli anni ’90, un mondo ancora ingenuo e analogico, e pone le due protagoniste, agenti dell’FBI alle prese con un caso di sparizione di un bambino, in una cittadina della provincia americana, circondata da foreste e caratterizzata dalla presenza di un imponente osservatorio astronomico. Qui terminano i dettagli relativi alla storia (almeno in questo pezzo, magari altrove troverete altre recensioni più spoilerose ma francamente non ne consigliamo la lettura) perchè, vista anche la brevità del gioco, sarebbe davvero criminale aggiungere altri particolari. Quello che si può dire invece, perchè ha ricadute pesanti sul fronte della giocabilità, è che di investigativo, in Virginia, non c’è quasi nulla. Al giocatore, alter-ego di una delle due protagoniste, non viene richiesto altro che muoversi da un punto A ad uno B e premere occasionalmente un tasto per far avvenire un evento.

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Dal punto di vista ludico quindi, siamo ancora più “sui binari” rispetto ad un altro titolo (qui molto apprezzato) che ha caratterizzato il 2016 ludico, quel Firewatch che basava gran parte del suo fascino sulla grafica, la musica e i dialoghi tra gli unici due personaggi della storia. Beh, in Virginia si fa affidamento solo sui primi due elementi, visto che per tutta la durata del gioco, nessuno proferisce parola. Piuttosto innovativo è invece il montaggio. Già parliamo proprio di montaggio cinematografico, perchè molto spesso l’azione che il giocatore sta effettuando (camminare, per lo più…) viene bruscamente interrotta per spostarla in un altro momento e luogo, una scelta coraggiosa e originale che permette al ritmo di mantenersi sostenuto (e i colpi di scena davvero non mancano) fino alla fine.

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Dove Virginia si fa apprezzare è nel comparto grafico/sonoro: lo stile scelto non è comparabile con quello proposto da Olly Moss in Firewatch, ma fa la sua figura. Assolutamente incredibile è invece la partitura di Lyndon Holland, a mani basse una delle migliori dell’anno.

Sui due piatti della bilancia ci sono quindi una storia interessante (e talvolta surreale e criptica, proprio alla Twin Peaks), una coppia di personaggi atipici e intriganti e ottimi valori produttivi; dall’altro una durata da film, un gameplay inesistente, una replay value prossima allo zero (per quanto alcuni capitoli andrebbero rivissuti solo per riascoltarne il commento sonoro) e, ovviamente, un prezzo da pagare. A me è piaciuto, ma l’ho giocato grazie ad un code review gentilmente concesso per intercessione dello stesso Jonathan Burroughs (poi un giorno parleremo dei nostri rapporti coi distributori “ufficiali”…) ed è una cosa di cui devo tener conto. A voi la scelta, gli elementi per valutare li avete tutti.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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2 Comments

  1. Personalmente non riesco mai ad apprezzare fino in fondo questo tipo di approcci. Intendiamoci, da giocatore può anche piacermi l’esperienza e apprezzare la storia che mi viene raccontata, ma se provo a pensare un po’ più criticamente non riesco a convincermi. É il solito vecchio problema dei videogiochi: l’attrito della sfida e l’interattività (per quanto spesso limitata) uccidono la narrazione perché scombinano i tempi drammatici, a meno che l’interattività stessa non sia parte integrante della narrazione, dove però forse dobbiamo pagare in profondità (vedi ad esempio quella chicca di Westerados, o quel grande incompreso che é Far Cry 2). Questo avviene comunemente e d’altra parte la scelta di rinunciare o quasi al gameplay in favore della narrazione potrebbe anche essere vista come coraggiosa e lodevole da questo punto di vista, ma per me rimane un grande spreco. Trasformare i videogiochi in film interrattivi sappiamo già dove porterà: la miglior trama di un gioco che so, investigativo, sarà più o meno la miglior trama di un film giallo o al massimo poco migliore… Direi che ci sono approcci più interessanti nel medium

    1. Oltretutto, graficamente, sembra di vedere gli avatar del Wii…

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